Si torna sempre allo spettro filosofico di Foucault. Soprattutto al Foucault di Sorvegliare e punire quando dice: “è il fatto di essere visto incessantemente, di poter sempre essere visto, che mantiene in soggezione l’individuo disciplinare”. Parte da qui anche il costituzionalista Michele Ainis in un libretto agile e denso, Il regno dell’Uroboro (La nave di Teseo, pagg. 136, euro 10), che prende spunto dal mitologico serpente che si morde la coda per rappresentare il Potere di oggi, tutto speculare, autoreferenziale, divorante e replicante, basato sulla miniera di dati personali che noi stessi garantiamo alle holding della profilazione attraverso i nostri comportamenti sovraesposti, e che sul piano psicologico ci porta a solitudine, inermità, artificialità, narcisismo e crollo dei vecchi legami solidaristici. Il Potere scruta, fruga, viviseziona, rapisce, riformula, riaggrega: questo fa la post-verità che ha in spregio le nostre umanissime e fragilissime storie, ma non i “consigli per gli acquisti” che gli suggeriamo postando sui social, facendoci tracciare, partecipando al consumismo di massa, disintimizzandoci a ogni piè sospinto per non crepare di anonimato, dramma sociale assolutamente bandito da una società spettacolarizzata. Sono gli algoritmi, il “capitalismo della sorveglianza” a renderci schiavi nella nostra immane libertà, dentro un regime che potremmo definire di inframediazione, cioè una mediazione non intellettuale o etica o razionale ma basata su automatismi di profitto, deontologie che diventano ontologie, protocolli linguistici, agende setting ed economie della percezione. La dis-intermediazione è più letale ancora – avverte Ainis – poiché legata a una diaspora del sentire, a un darwinismo della ricerca dove si crede di informarsi sulle chat, con l’opinione spiccia del vicino di tastiera, i settarismi delle echo chamber e le indicizzazioni sui motori di ricerca. Una dieta informazionale personale che è bulimica o anoressica, comunque patologica e invalidante. “La dottrina del foro pubblico” è la vittima predestinata. In un profluvio di schegge impazzite del fu giornalismo, dimentichiamo la discussione, la cara vecchia agorà, i meccanismi democratici, l’”invenzione” a vantaggio della “catalogazione”. La vera mediazione sarebbe invece intersoggettività della parola, socialismo dei parametri guida, né macchina farneticante né solipsismo autoingannato. Lyotard fu chiarissimo nel suo concetto di Postmoderno. Da lì purtroppo non ci siamo schiodati. I giochi linguistici come degno sostituto di un verbo autoritativo sono diventati puri giochi e basta, sperpero di concetti, ipertrofia delle regole, violenza distrattiva sistemica. Cacofonia dice Ainis, “parola disossata”.
22/11/2024
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