Un attacco che, per la sua durezza, ha colto di sorpresa in molti tra le truppe parlamentari M5S. Come del resto Luigi Di Maio, diretto destinatario dell’intemerata, vergata di proprio pugno dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio. Che, nell’editoriale di ieri, ha accusato il ministro degli Esteri di voler rimettere in gioco il pregiudicato Berlusconi, con armata di impresentabili al seguito. La colpa di Di Maio sarebbe quella di aver incontrato l’ex presidente della Bce Mario Draghi. E l’eminenza grigia del Cavaliere, Gianni Letta. Incontri istituzionali, al pari di quelli che, d’altra parte, neppure il premier, Giuseppe Conte, osannato dallo stesso Travaglio nel medesimo editoriale, sembra disdegnare.
Come se, stando la sillogismo del direttore del Fatto, al premier fosse permesso, anzi imposto, di coltivare la sua rete istituzionale e al titolare della Farnesina debba essere, invece, precluso. Lasciando presagire, se a farlo è il titolare della Farnesina ed ex capo politico dei Cinque Stelle, chissà quali pericoli, quali inciuci, quali consorterie ne potrebbero derivare. “La maggioranza è questa e non si tocca e tra l’altro questa maggioranza sta lavorando bene sia a livello di governo che a livello parlamentare”, chiariscono, interpellati da La Notizia, dall’entourage di Di Maio. Risposta chiara, lampante e definitiva, alle accuse, neppure tanto velate, di intellighentia col Caimano, rivolte da Travaglio all’ex leader M5S.
Certo, resta un’obiezione: nel Vietnam del Senato, dove i giallorossi hanno perso la maggioranza assoluta, il tema dei numeri risicati resta obiettivamente una questione seria che non si può ignorare. “Certamente il problema dei numeri a Palazzo Madama esiste, ma spetta a Conte, quale garante della coalizione giallorossa, darsi da fare per puntellare la maggioranza che lo sostiene”, fa notare più di qualcuno tra i parlamentari del Movimento Cinque Stelle. Tra i quali c’è pure chi va oltre nel ragionamento: “Conte ha preso coscienza che il rischio di cadere è reale, ma se cade questo governo lui rischia di tornare a fare l’avvocato, Di Maio invece ha alte probabilità di restare ministro”.
D’altra parte, dal momento stesso in cui Di Maio ha lasciato la guida del Movimento, ha scelto di assumere un profilo istituzionale apprezzato ovunque. Recitando alla perfezione il ruolo del leader che media, che smussa, che modera. Perché in questo momento non vince ciò che divide, ma ciò che unisce. La gente è frastornata dalla pandemia e dalla conseguente grande crisi economica. Non vuole sentire più duci e ducetti in grisaglia verde o giallo-verde arringare le folle dal Papeete o dal Messico o dall’Iran. La gente vuole stabilità e ripresa, ritorno alla normalità, toni pacati, ma non melliflui. Sul piano istituzionale l’ex vicepremier è stato il più dialogante sul Mes, su Autostrade e, in generale, su tutte le “patate bollenti” che polarizzano i Cinque Stelle. Perché la politica è anche compromesso. È apprezzato a livello internazionale, la cancelliera Merkel ha avuto parole di elogio per lui.
Del resto a Di Maio non restavano comunque strategie di uscita dopo il consolidamento di Conte. I Cinque Stelle sono una struttura molto più complessa di quello che parrebbe a prima vista. Hanno rette parallele, per citare proprio un moderato come Aldo Moro, che vanno a confluire all’infinito e la cui topologia è multipla, epifania di un pantheon ideale, Grillo, Di Maio, Di Battista, Casaleggio, Fico. I grillini hanno una destra, una sinistra e da poco anche un centro, una sorta di buco nero dinamico sempre in Movimento che può attrarre consensi quando c’è da addolcire gli angoli e dialogare per il bene comune. Ecco, la sensazione è che Di Maio, più che Conte, sarà il nuovo profeta di questo centro. Con buona pace di Travaglio.