La sfida è di quelle epocali, alto livello, tipo Milan-Ajax finale di Coppa dei Campioni o Italia-Germania Messico ‘70. Stiamo parlando della tenzone tra Giuseppe Conte, presidente del Consiglio, e Dario Franceschini, due democristianoni doc. Tutte e due usano il fioretto e mai la clava, tutti e due sono di gentili e bei modi, tutti e due sono ingegnosi costruttori di congegni politici a tempo che hanno una storia di strategia ancor prima di tattica, come usano invece i fumantini inesperti ultimi arrivati. Inizialmente i due andavano di molto d’accordo e non poteva essere che così essendo tutti e due avvezzi al compromesso e alle lusinghe degli angoli addolciti, delle curve smussate, della parola gentile, ma dietro questo che fuochi di vulcano covavano e covano! Il governo giallorosso nasceva greve di speranze e nessuno poteva prevedere che pochi mesi dopo si sarebbe imbattuto in una pandemia mondiale che ha travolto l’economia e la società.
PICCOLA VENDETTA. Il primo scontro proprio sul virus con l’invito del ferrarese a tenere d’occhio la situazione che Conte aveva inizialmente sottovalutato per poi rimediare in seguito. Il casus belli è stato la convocazione degli Stati Generali senza coinvolgere il Pd e specificatamente Franceschini che è il capodelegazione e Zingaretti che è il segretario e per un partito ex comunista sono fatti che contano. C’è una ritualità gerarchica da rispettare. E poi sui contenuti del decreto semplificazione c’è stata la crisi, con Franceschini che ha accusato il premier di condoni mascherati per poi vedersi cancellate delle assunzioni al suo ministero, quello della Cultura. Piccola vendetta appunto in stile Dc. Ma il ministro ha poi declamato senechianamente: “Una nave senza timone rischia di affondare”, che per il felpatissimo linguaggio dell’ex via del Gesù ha il valore di una bestemmia tartarica di Attila di fronte al Papa. Ma al di là di questi scambi di convenevoli qual è la sostanza politica? Franceschini ha in mente un solo progetto anche se ovviamente lo nega: fare le scarpe a Conte.
TRA CHIGI E QUIRINALE. Perché un democristiano lasciato libero, come un missile a ricerca termica, insegue naturaliter un solo bersaglio: il potere nella sua espressione maggiore e poiché il Quirinale è ancora lontano ecco che la traiettoria è facilmente identificabile su Palazzo Chigi. Se poi questo desiderio sia solo del ministro o sia anche condiviso – per altri motivi – pure dal segretario non è dato da sapere. Se Conte dovesse mostrare tentennamenti o dubbi di fede nel suo difficile ruolo di mediatore tra i Cinque Stelle e il Partito democratico potrebbe trovarsi in una doppia tenaglia attaccato sia dai gialli che dai rossi.
Ma l ’avvocato del popolo è uomo abile e navigato, ha atteso anni prima di avere la possibilità di dimostrare il suo valore ed ora non ha alcuna intenzione di tirarsi indietro. Ovviamente in questo discorso c’è da far di conto proprio sull’elezione del Presidente della Repubblica nel 2022 che è il bersaglio grosso di tutti i papabili. Se Franceschini dovesse ghermire Palazzo Chigi perderebbe poi qualsiasi possibilità di ascendere, nel 2022, al Quirinale e questa regola non scritta la conosce qualsiasi vero democristiano che si rispetti. Però forse, di questi tempi difficili, è meglio l’uovo possibile oggi che la gallina incerta domani. Giuseppi è avvertito.