Il rischio, piuttosto concreto visti i tempi a disposizione, è che alla fine quella che verrà approvata sarà una riforma costituzionale dimezzata. O, quantomeno, non quella concordata dalla nuova maggioranza formata da Pd, Liberi e Uguali, Italia Viva e Movimento cinque stelle. Al centro di questa ennesima querelle che rischia di scoppiare all’interno della maggioranza una pedina fondamentale specie per i pentastellati: il taglio del numero dei parlamentari. La scorsa settimana è stata confermata la finestra elettorale del 2020. Le varie tornate (comunali, regionali, suppletive) saranno quindi concentrate in un unico election day. La data su cui si sta orientando il governo è il 20-21 settembre. Giorno in cui si dovrebbe anche votare proprio per il referendum costituzionale che prevede un poderoso taglio al numero di deputati (da 630 a 400) e di senatori (da 315 a 200) e un altrettanto poderoso taglio alle spese.
L’INGORGO. Il punto, però, è che se il provvedimento è stato fortemente voluto dal Movimento 5 stelle, che ha lanciato il lungo iter della riforma costituzionale già durante il primo governo Conte (5stelle-Lega), per il centrosinistra la questione è ben diversa: nei suoi primi passaggi parlamentari, Pd e Leu hanno sempre votato contro al taglio. Con il nuovo esecutivo, ovviamente, si è trovata una quadra: il centrosinistra avrebbe sostenuto il provvedimento, con l’accordo di approvare successivamente dei correttivi al testo. Ed ecco il punto: quei correttivi sono decisamente in alto mare, come spiegato ieri dal portale OpenPolis. Nello specifico si era concordato nell’approvare due provvedimenti. Il primo disegno di legge – a prima firma Federico Fornaro (Leu, nella foto) prevede una sostanziale modifica agli articoli 576 e 83 della Costituzione e mira a superare la base regionale per l’elezione del Senato, in favore di una base circoscrizionale; e a ridurre da 3 a 2 i delegati regionali che partecipano all’elezione del Presidente della Repubblica.
L’altro testo, invece, è stato presentato dal pentastellato Giuseppe Brescia e prevede l’abbassamento a 25 anni dell’elettorato passivo e a 18 di quello attivo per il Senato. Tuttavia, per quanto riguarda il ddl Fornaro proprio a giugno è partito l’iter, con un ciclo di audizioni in commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Il ddl Brescia, invece, è stato presentato a gennaio del 2019, a fine luglio dell’anno scorso ha ottenuto una prima approvazione. Poi è passato al Senato e qui il provvedimento è stato discusso congiuntamente con altri 3 disegni di legge e una petizione popolare. A gennaio di quest’anno è stato votato in Commissione il testo base assieme agli emendamenti. Considerando che il ddl Fornaro non ha ottenuto ancora alcun ok da Montecitorio o da Palazzo Madama mentre quello presentato dal Movimento solo una, e considerando che sono necessarie ben quattro approvazioni essendo disegni di legge di riforma costituzionale, rende la partita più complessa del previsto. Non fosse altro per una questione di tempo.
Non si può dimenticare, infatti, che anche dopo l’ok definitivo del Parlamento, c’è sempre la possibilità che venga presentata richiesta di un nuovo referendum costituzionale specifico per ognuno dei due ddl intanto diventati legge. Si rischia, dunque, l’ennesimo ingorgo istituzionale. Senza dimenticare, tra le altre cose, che se il referendum di settembre dovesse confermare il taglio, anche i regolamenti di Camera e Senato – che seguono leggi proprio e autonome – dovranno essere modificate. Sempre che non intervenga un nuovo, inedito, colpo di scena.