di Andrea Koveos
L’Italia spende lo 0.54 per cento del Pil in ricerca e sviluppo. Poco più di 8 miliardi e 200 milioni l’anno. Una cifra che rispetto alle altre nazioni è molto bassa. Ma la domanda vera è: come vengono usati questi soldi, pochi o tanti che siano? Secondo la corte dei Conti sono impiegati male, per essere precisi “il complesso delle risorse umane e finanziarie dedicate alla ricerca e all’innovazione appare attualmente insufficiente, in assoluto, e comparativamente con gli altri paesi industrializzati”. I dodici istituti di ricerca presenti in Italia assorbono almeno il 50% dei finanziamenti per il personale costi che, per altro, vanno a rosicchiare la disponibilità per i progetti di ricerca veri e propri.
Questo dato per enti che fanno ricerca rientrerebbe nella normalità se non fosse che sul totale di circa 24 mila 430 lavoratori solo 12 980 sono ricercatori. In queste strutture i laboratori dovrebbero essere pieni e invece a essere in soprannumero sono le segreterie.
Alcuni esempi. L’istituto italiano di studi germanici, finito un paio di giorni fa nel mirino della Corte dei Conti, dispone di sei collaboratori, cinque dei quali sono tecnici amministrativi e uno solo è un ricercatore.
L’istituto di alta matematica su dieci dipendenti, non ha nemmeno un ricercatore assunto con contratto a tempo indeterminato. Ancora: il Cnr ha 440 sedi e alcune di queste funzionano con ricercatori che si contano sulle punta delle dita.
Un’altra anomalia è rappresentata dalla Stazione zoologica Antonio Dohrn di Napoli per la quale, inutilmente, si è ipotizzato da anni un accorpamento col Cnr.
Quindi aldilà di come si spendano i soldi arriva un altro quesito: quale ricerca scientifica può svolgere chi non ha ricercatori in pianta stabile? Va detto che in via eccezionale, è stata accordata la facoltà di assumere esperti italiani e stranieri di altissima qualificazione scientifica per chiamata diretta con contratto a tempo indeterminato, nell’ambito del 3% dell’organico dei ricercatori e nei limiti della disponibilità di bilancio.
Ed è proprio sulla disponibilità di bilancio che casca l’asino.
Così come evidenziano i giudici contabili i residui passivi che gli enti di ricerca hanno accumulano via via negli anni superano di gran lunga i 500 milioni di euro l’anno. Debiti che nel 2010 ammontavano a 950 milioni di euro e che nel 2011 si attestano intorno ai 715 milioni di euro.
Ecco che dodici strutture sono troppe. Si sovrappongono producendo un grande spreco di risorse. Parola della Corte.
Una macchina burocratica talmente lenta che spesso i progetti scientifici conclusi non sono più adeguati ai tempi. D’altro canto, al pari di qualsiasi attività dello Stato che assorba risorse consistenti, occorre che si effettui un accurato e penetrante esame dei risultati raggiunti dai singoli enti di ricerca, a conclusione dell’anno. Valutazioni che lasciano ampi dubbi, quando ci sono. Così come rimane, apparentemente inspiegabile come la scure della spending review non abbia scalfito questi enti, se non per qualche irrisoria sforbiciata. In questi istituti sono state eliminate 31 poltrone da dirigente, ma nulla è stato fatto per cambiare la sproporzione tra ricercatori e personale amministrativo. Il che lascia il sospetto che possano servire per distribuire a caso preziosi posti lavoro. Per i soliti raccomandati, senza arte né parte.
In definitiva le risorse stanziate per la ricerca oltre a essere utilizzate male sono scarse. L’Italia è collocata al di sotto della media dei Paesi dell’Unione, con una spesa per la ricerca pari allo 0.54% del Pil, mentre il Consiglio europeo, già nel 2005, aveva fissato l’obiettivo al 3% .