Restano distanze e dubbi sulla data dell’election day al 20-21 settembre. Accorpare in un solo giorno regionali, amministrative e voto sul referendum sul taglio dei parlamentari è stata una soluzione prospettata dal governo e auspicata dal comitato tecnico scientifico come misura per ridurre i contagi. Ma sulla data indicata dall’esecutivo non c’è l’accordo. Martedì si è levata la protesta sia del presidente e del vicepresidente della Conferenza Stato Regioni, Stefano Bonaccini e Giovanni Toti, che ieri hanno sollecitato un immediato incontro col governo, sia del centrodestra. Gli argomenti contro il 20 sono diversi: tale data comporterebbe una campagna elettorale durante la stagione turistica, già in affanno.
C’è poi il problema della raccolta delle firme, difficile da fare in tempi di distanziamento sociale e di divieti di assembramenti. C’è poi un altro argomento che rema contro: il 20 cade la festa ebraica Hannukkah, conosciuta anche come festa delle luci o festa dei lumi. Ma il voto esteso al lunedì 21 permetterebbe di superare questo ostacolo. A livello regionale, in realtà, le prospettive cambiano rispetto a quello parlamentare. Il presidente del Veneto, Luca Zaia, e quello della Puglia, Michele Emiliano, premono per votare a luglio. Il primo, forte del successo con cui la sua amministrazione sta fermando il contagio, spinge per andare al più presto all’incasso. Idem Emiliano. Ma nel centrodestra Forza Italia e FdI parteggiano per uno slittamento, al 27 settembre o magari a ottobre.
Eppure se il governo difende la data del 20-21 settembre un motivo c’è ed è squisitamente politico. Votare in quei due giorni significa poi che gli eventuali ballottaggi cadrebbero a ottobre. Ovvero nel pieno della sessione di bilancio. Pensare di aprire una crisi in quel lasso di tempo diventerebbe un azzardo. Anche per le più alte cariche istituzionali. Senza considerare che il referendum sul taglio dei parlamentari, oltre ad allungare i tempi per la necessità di ridisegnare i collegi, rafforzerebbe il partito del non voto. Quanti temono, cioè, con un Parlamento in versione mignon, di perdere il loro scranno. L’attuale impianto costituzionale prevede 945 membri. Se passasse il taglio scenderebbero a 600. Ecco perché sono in molti a sostenere che, dopo il referendum, se passasse la riforma tanto cara ai Cinque Stelle il governo sarebbe blindato e andrebbe a scadenza naturale di fine legislatura.
Oggi il premier incontrerà il Comitato per il Referendum. “Il 20 settembre è una data dettata dalla logica utilitaristica di chi si preoccupa di blindare la sopravvivenza di un governo traballante”, afferma Anna Maria Bernini. Ma l’azzurra non dice che proprio il suo partito, come quello di Matteo Renzi, è tra i meno desiderosi di precipitarsi alle urne. E che, inizialmente, il suo compagno di partito Paolo Sisto aveva sposato l’indicazione del 20. Il centrodestra è diviso non solo su quando votare ma su chi candidare, vedi Puglia e Campania. Secondo gli accordi presi dai tre leader la prima regione tocca a FdI e quindi a Raffaele Fitto, la seconda all’azzurro Stefano Caldoro. Ma contro questi due nomi si è schierata la Lega.
La commissione Affari costituzionali della Camera ieri ha licenziato il decreto Elezioni. Che approderà oggi in Aula. Passato l’election day, ovvero l’accorpamento di comunali, regionali, suppletive e referendum, in un’unica tornata, che si svolgerà in due giornate: domenica e lunedì. Da scegliere in una finestra che va dal 15 settembre al 15 dicembre. L’orientamento del governo è, appunto, per il 20 e 21 settembre, con il ballottaggio il 4 e 5 ottobre. Le firme da raccogliere saranno ridotte di un terzo.