Intatto. Le spiagge rosa e le tartarughe neonate che prendono la via dell’Oceano inghiottite dalle onde. La foresta tropicale, il cielo sopra le scogliere dopo la pioggia. Il mare a gennaio. La notte immacolata di stelle. Il talento di John Coltrane dal primo all’ultimo fiato nel sassofono. L’erba ai margini dell’autostrada, il sonno dei bambini, le mani dei bambini, il paradiso terrestre. Ah, no, quello no, non è intatto. Dalle terre vergini e intatte dell’Eden siamo stati cacciati in malo modo e nudi, condannati al duro lavoro e ai dolori del parto. Da allora siamo tutti colpevoli, mai più innocenti. Da quel giorno siamo tutti marci e malati e mortali. Prima di mangiare la mela, Eva l’ha presa con le mani. L’ha strappata dall’albero, l’ha tenuta stretta in pugno, ha sentito il calore del sole sulla buccia, il picciolo saldo nella cavità peduncolare, la peluria rigida della calicina. Forse l’ha odorata, tenendo il naso sulla buccia liscia, l’effetto di un turbine su un pavimento di corde. Solamente allora ha deciso di morderla. Ma non per fame. Per amore. Per portarla dentro di sé. Per diventare parte della mela.
È tutta qui la fine dell’innocenza, il sipario che cala sulla felicità perfetta in un mondo perfetto di due esseri perfetti – perché la mela poi l’ha mangiata anche Adamo e gli si è strozzata in gola e lo vediamo anche oggi, ogni volta che ci guardiamo allo specchio. Addio a un mondo intatto, mai toccato, non sporcato dalle dita dell’uomo. Era questo il paradiso prima che lo mangiassimo, prima che lo potessimo vedere, prima di sentire la voce iraconda di dio urlare nelle orecchie di due profughi che si riconoscono nudi. Ma non è la cacciata il male peggiore. Guerre, carestie, pestilenze, sono nulla se paragonate ai danni di una sola piccola idea piantata nella testa degli uomini come un seme, come il seme di una pianta che tutto succhia e tutto mangia e tutto corrompe. La pianta malsana della riconquista.
L’edera cancerosa dell’intatto, dell’immacolato, e della purezza da riguadagnare. Ora, dico, dov’è questo paradiso così desiderabile? Indietro, nel passato? Nel trapassato remoto dell’infanzia o in quello ancora più ancestrale dell’utero? Oppure è lì davanti, oltre le colline del quotidiano, nelle terre sognate, in un mondo senza dolore, senza sforzi, senza lavoro, senza l’ombra del corpo che non ci abbandona neppure in fondo al mare? Il paradiso è qui, adesso, da nessuna altra parte e in nessun tempo. E l’inferno è essere altrove, anche in un paradiso che non sia qui e ora, sporco di mani, sudicio di vita. E ce ne sono a centinaia, a migliaia, un paradiso per ogni uomo e per ogni donna, un paradiso a testa, sopra e dentro ogni testa e per me, per il mio personale paradiso, qui e ora, da toccare con le mani.
LE MANI SENZA IL CONTAGIO …Ci facciamo l’amore con le mani. Noi vediamo con gli occhi, e solamente con gli occhi. Respiriamo i profumi e gli olezzi con il naso. Ascoltiamo con le orecchie. Assaporiamo l’aspro, il dolce, il salato e l’acido esclusivamente con la bocca. Il senso del tatto, invece, è diffuso su tutto il corpo, poiché l’organo del tatto è la pelle. Possiamo sentire con i piedi, con l’interno della coscia, con le spalle e con il viso, gli occhi, le orecchie e anche il naso. Ma le mani… Le mani sono per il tatto i nostri occhi, le nostre orecchie, la bocca e il naso. Con le mani possiamo sentire il freddo e il caldo, il ruvido, il liscio, l’umido, il secco, il solido, il liquido. Le mani sono le nostre sonde nel mondo, la navicella spaziale lanciata nel tempo delle nostre vite, il palombaro che si getta all’indietro nella luce del giorno e della notte. Un palombaro, oggi, al tempo della distanza, senza vista, senza gusto, senza olfatto… E senza parole, poiché ci parliamo a lungo, e per spazi immensi, lontano fino a dove 100 anni fa non era neppure immaginabile arrivare. Ma non ci possiamo toccare.
IL GENIO DELLA LINGUA. Il Genio della lingua è un essere buono, magnanimo, che si nutre dei doni che regala agli uomini. Lui, il genio, ha tatuato sul braccio i versi finali del brano The End dei Beatles: “And in the end/ the love you take/ is equal to the love you make”. E lui, il genio, ci ama tanto, di un amore infinito. Per questo non si è accontentato di regalarci la parola capire. Ci ha voluto più ricchi, più pieni di gioia, più capaci di sentire i colori sulla pelle, e ovunque intorno e dentro il corpo. Ha voluto aggiungere un altro vocabolo stupendo, bellissimo, mirabolante alla nostra lingua, la parola comprendere. Perché capire è bello e importante. Capire come la Terra gira intorno al sole.
Come il carbonio sia alla base della vita in ogni angolo dell’Universo. E capire un po’ alla volta anche l’Universo stesso, questo gigante che ci fa sentire così piccoli sulla sua groppa, così fragili, ma pure così fieri di svelarne i segreti, e di capirli. Ma non basta, dice il genio della lingua. Io voglio di più per voi uomini. Voglio che sentiate la felicità addosso, che possiate toccarla con le mani, che possiate abbracciarla. Ed è per questo che voglio che voi com-prendiate, che prendiate insieme, che tocchiate tutto ciò che sapete e lo portiate addosso come una seconda pelle, come un abbraccio che fate a voi stessi. A che cosa serve altrimenti sapere? Che cosa puoi capire della persona che ami se poi non la puoi toccare per dimostrarglielo? Con un bacio, un abbraccio, una carezza. Oppure semplicemente standogli accanto, vicino quel tanto che basta perché possa tendere una mano, se lo vuole, per chiedere aiuto, calore, in una parola, anche questa un dono del genio, umanità.
E non è finita qui. Non finirà mai finché sapremo comprendere prima di capire. Il Genio della lingua lo sa. Ed è per questo, ora, che chiede un po’ di silenzio, anche questa una parola donata agli uomini con l’amore più grande del mondo. Il silenzio di un abbraccio, ora.
Illustrazione di Stefania Cozzoli per La Notizia