Luigi Di Maio si è dimesso dal ruolo di capo politico del M5S a gennaio 2020 e da allora si è seduto a guardare quello che succedeva da un buen retiro molto particolare e prestigioso e cioè la poltrona di ministro degli Esteri. Qualcuno più malizioso potrebbe arrivare a dire che si è seduto con una bella scorta di pop corn. Di fatto in questi mesi ha tenuto un profilo basso dal punto di vista mediatico, ma non è affatto scomparso, anzi è intervenuto sempre puntualmente, imprimendo calibrate accensioni dei razzi al Movimento non più guidato da lui ma dal reggente Vito Crimi. E qui veniamo al punto dei famosi Stati generali che avrebbero dovuto sancire ufficialmente il passaggio di consegne dal reggente al nuovo leader.
Ma il virus piombato sul mondo ha plasmato con la sua forza anche il palcoscenico politico, anzi partitico, italiano facendo rimandare l’appuntamento a tempo indeterminato, con la benedizione di Beppe Grillo. È chiaro che questo fatto abbia rafforzato Di Maio che così non ha assistito ad alcuna transizione di potere e ha mantenuto quindi intatte le sue possibilità di riconquistare i Cinque Stelle. Crimi, dal canto suo, ha lavorato bene ed anzi ha riportato consensi ai pentastellati dopo il lungo periodo di crisi durato quasi un anno dopo le elezioni europee del 2019. Ma ora il panorama politico è completamente cambiato. Cinque Stelle in risalita, Lega in difficoltà, Giuseppe Conte domino incontrastato e vero dictator in senso latino nel periodo di crisi adesso si indebolisce con le riaperture ed è quindi possibile risagomarne azione e poteri entro limiti più precisi e controllabili. Del resto, come dicevamo, il ministro non è certo rimasto in disparte.
Sul Mes, sulla giustizia, sul taglio dei parlamentari si è fatto sentire autorevolmente. Che poi Di Maio non fosse così favorevole alla nascita di un esecutivo giallo-rosso non è un segreto, come critica era l’area sovranista del Movimento, certo minoritaria in questo momento, ma comunque assolutamente ancora presente. Gli uomini vicini a Di Maio sono ancora tutti al loro posto e attivi, come il suo consigliere politico Pietro Dettori, molto vicino a Davide Casaleggio, a riprova che nulla è cambiato in quel gruppo compatto che aveva guidato il Movimento dopo la netta vittoria alle politiche. Per ora, comunque, il ministro degli Esteri è l’unico che ha esperienza governativa solida e capacità pragmatica non disgiunta da una naturale tendenza alla mediazione che ne fa il candidato naturale ad un ritorno sulla scena del suo partito.
L’unico vero contendente è Alessandro Di Battista che però è una incognita perché ad un grande seguito tra i militanti non ha mai corrisposto un ruolo nell’esecutivo e quindi si tratta di una sorta di “mina vagante” a cui manca sempre qualcosa per raggiungere la vetta. Di Battista rappresenta l’ala movimentista, dura e pura, antieuropeista, antisistema, anti-banche, anti-finanza, una sorta di ircocervo rosso-bruno che assomma in sé elementi sia di sinistra che di destra sociale che hanno però una forte risonanza nell’anima anarchica di molti iscritti. E poi c’è lui, Beppe Grillo, ritiratosi nel suo blog ad inizio epidemia, dopo aver di fatto imposto la svolta “a sinistra” al Movimento con l’alleanza con l’odiato (una volta) Partito democratico che a molti non è andata proprio giù. Ed indubbiamente è proprio Grillo la trave principale su cui poggia l’esecutivo di Conte che a breve dovrà fronteggiare una temibile crisi economica.