di Andrea Koveos
Mali culturali. In ogni provincia ci sono esempi di borghi, chiese, monumenti, siti archeologici abbandonati al loro destino. Basta leggere l’ultimo censimento del Fai (Fondo ambiente italiano), ricavato da oltre un milione di segnalazioni, per scoprire quanti luoghi sono prigionieri del degrado, dell’abbandono e della speculazione edilizia. Dalle Valle d’Aosta alla Sicilia i casi di incuria sono a centinaia. Una desolazione che del resto non interessa nessuno. Gli stessi organi di informazione non sembrano andare oltre Pompei o il Colosseo. Eppure esistono meraviglie architettoniche meno conosciute che rappresentano la nostra storia e le radici dei suoi abitanti. Ed è proprio il patrimonio culturale, la conservazione e la manutenzione delle nostre città, dei nostri archivi, delle nostre biblioteche che la spending review inesorabilmente ha colpito. Tale miopia manageriale risale a lungo nel tempo.
Il governo tecnico ha “solo” dato il colpo di grazia. L’attività industriale collegata al patrimonio culturale, infatti, è l’unica delle industrie creative che dal 2001 al 2010 è scesa in termini assoluti e relativi. E questo ha provocato a sua volta la diminuzione delle imprese industriali e artigiane che lavorano sulla cura e sulla manutenzione, che hanno sperimentato sul patrimonio culturale le tecnologie che hanno permesso di costruire sul costruito: risorse preziose per lo sviluppo sostenibile del Paese. Contestualmente sono crollati i dati dei dipendenti pubblici che svolgono le funzioni di conservazione e di salvaguardia del patrimonio culturale. Eppure, secondo un recentissimo rapporto di Unioncamere e della Fondazione Symbola costruito sulla base del perimetro del comparto definito dall’Unione Europea, sono impegnate in queste attività 1 milione e 400 mila persone e la ricchezza prodotta rappresenta il 4,9% del Pil, senza contare l’effetto determinante che queste attività hanno per l’attrazione turistica e per la promozione dei nostri prodotti nel mondo. Quante misure ha previsto il Governo Monti sulla cultura? Zero, non c’è traccia né della cultura e né dell’attività produttiva che questo settore genera del nostro Paese genera.
Un’ottusità manageriale di cui la politica è ancora affetta. Il bilancio del ministero dei Beni culturali è passato infatti dai due miliardi e 386 milioni del 2011 al miliardo e 425 milioni del 2011, collocandosi agli ultimi posti per la percentuale di spesa del Pil a ciò dedicata (0,21%) fra tutti i Paesi Ocse (in linea del resto con la posizione occupata sulla scuola, l’università e la ricerca). Il progressivo disimpegno pubblico ha rilevanti conseguenze sul settore sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Nel 2011, ma il fenomeno sembra ancora più accentuato nel 2012, la tendenza all’incremento dei consumi culturali sembra invertirsi. Diminuiscono del 2,7% le presenze nei teatri, del 3,8% quelle ai concerti classici, dell’1,3% le visite ai siti archeologici e ai monumenti.
Il quadro è reso ancora più drammatico dal protrarsi dei tagli alle autonomie locali, in primo luogo ai Comuni, come via maestra per contenere la spesa pubblica. Secondo il rapporto “Sbilanciamoci 2013” i Comuni hanno investito in questi anni in attività culturali il 3,6% dei loro bilanci, a fronte dello 0,21% del bilancio dello Stato, al 2,6% delle Province, dello 0,60% delle Regioni. Sono stati elemento essenziale delle tenuta del patrimonio culturale del nostro Paese, di quello storico e di quello contemporaneo. Gli ultimi tagli rischiano di far vacillare questo argine. E gli effetti sono già visibili nel contrarsi della spesa pubblica, sia di parte corrente che in conto capitale, nei bilanci comunali del 2011 rispetto al 2010.
Rimettere in sesto centinaia di siti in stato di incuria e abbandono significa dare ossigeno all’economia con la strategia delle piccole opere e riconsegnare intatte ai cittadini le radici e la storia.