di Andrea Koveos
Venti miliardi l’anno per le spese militari. E paghiamo noi. Miliardi che escono dalle casse dello Stato e che nessun governo ha mai tagliato. Solo per il personale il ministero della Difesa liquiderà quest’anno 9 miliardi e mezzo di euro di stipendi. E questo è niente. La Marina ha annunciato l’acquisto di 12 nuove navi con un costo di 250 milioni a unità, per un totale di 3 miliardi. Ma la lista della spesa (dichiarata dal dicastero) è ancora lunga: un miliardo e mezzo di euro per 249 blindati freccia, 200 milioni per 4 sommergibili di nuova generazione, 655 milioni per le fregate Fremm, 60 milioni per un numero non precisato di elicotteri da combattimento, a cui vanno aggiunti esborsi per portaerei, missili terra aria, mortai e siluri. E per fortuna che il nostro Paese non è in guerra! Eppure, a scanso di guerre termonucleari globali, ospitiamo sul nostro territorio 70 bombe atomiche statunitensi B-61 (20 nella base di Ghedi a Brescia e 50 nella base di Aviano a Pordenone) adatte al trasporto sui nuovi 90 cacciabombardieri F35, il cui costo di acquisto – ricordiamo – si attesta sui 14 miliardi di euro. Se la nostra Costituzione ripudia la guerra perché si spendono così tanti soldi per corazzare le forze armate? Una risposta è arrivata dall’ex ministro Di Paola, che in un’audizione alla Camera, disse che siamo sotto attacco di diverse minacce: terrorismo internazionale, armi di distruzione di massa e vettori balistici. C’è dell’altro. Sarebbe in pericolo la nostra libertà di accesso e commercio delle materie prime, nonché il costante rischio di attacchi cibernetici.
A questo punto il problema non è la veridicità delle dichiarazioni di Di Paola, ma degli strumenti che il nostro Paese ha deciso acquistare per difendersi. Occorrerebbe capire, cioè, se le armi comprate in questi anni siano coerenti e proporzionali ai pericoli a cui siamo esposti. Non si può sparare a una mosca con un cannone. Che senso ha, quindi, comprare degli F35 – aerei d’attacco in grado di trasportare armi nucleari – per combattere il terrorismo internazionale? Gli elicotteri da combattimento o i sommergibili servono a scongiurare gli attacchi informatici? A questo tipo di quesiti i governi si sono sempre difesi con le “solite” giustificazioni: le ricadute tecnologiche e occupazionali sono importanti. Ricadute, per altro, su cui non tutti sono d’accordo. Secondo la Difesa, tanto per fare un esempio, tutto il progetto F-35 creerà 10 mila posti di lavoro; ma fonti sindacali assicurano che le assunzioni non saranno più di mille e 500, in quanto solo lo stabilimento di Càmeri (Novara) ha bisogno di nuovo personale. I cacciabombardieri, le fregate e altri sistemi d’arma hanno dietro costi che non possono essere giustificati solo con la minaccia terroristica, con la creazione di posti di lavoro o ancora con una generica sicurezza del Paese. Lo stesso ministro con l’elmetto, Mario Mauro, ha mostrato qualche difficoltà a giustificare uscite di cassa così elevate, trincerandosi con una frase (“per amare la pace, bisogna armare la pace”) non proprio azzeccata. Del resto quando si parla di spesa militare in Italia il vero obiettivo mancato è la trasparenza. Lo dice l’archivio Disarmo (istituto italiano di ricerche internazionali) e lo confermano autorevoli istituti internazionali. Ad oggi dunque nessuno sa l’ammontare preciso dei costi degli armamenti.
Il ministero ha sempre sostenuto che rispetto al Pil la spesa militare equivale allo 0.9%. Non la pensa così, però, l’istituto Sipri (Stockholm International Peace Research Institute) che sostiene invece che il nostro Paese ha speso in media nel periodo che va dal 2005 al 2009, l’1.8% del Pil. La cosa certa è i vari governi hanno ridotto drasticamente le spese sociali, per la scuola, per l’università, per la ricerca, per i beni culturali. Eppure il Paese desideroso di proiettare la propria azione sugli scenari internazionali, non esita a sostenere ben 26 missioni nel mondo, a volte con risultati per nulla scontati e non per forza positivi.