Nel coacervo politico-sanitario innescato dalla diffusione del coronavirus, una buona colonna dorsale concettuale potrebbe fornirla la rilettura dell’icastico pamphlet Psicologia delle folle (Tea, pagg. 251, euro 10) di Gustave Le Bon, personaggio dallo stile di vita quasi esoterico e dalle ricerche eclettiche che, pochi anni prima della fine del XIX secolo, gettò le basi di un primo corposo studio su come l’individuo si comporta quando le sue azioni, le sue volontà sono assorbite dagli automatismi inconsci e dalle suggestioni della massa, piuttosto che dal suo isolato e ragionevole spirito critico. Citato da Freud, Jung, Adorno, Merton, questo saggio arriva sino a noi, inzaccherati dal panico innescato dai media mainstream sulla diffusione di un agente patogeno “nuovo” e sull’alterarsi improvviso di riflessioni e relazioni con l’ambiente circostante.
“Non si discute con le credenze delle folle come non si discute con i cicloni”, ci ammonisce Le Bon, che di quelle mette in evidenza la mutevolezza, l’irritabilità, l’”inferiorità mentale”, la predisposizione a una mobilità impressionistica e sentimentale che estende modi di fare, effimeri ma travolgenti, per contagio ed imitazione. Ma attenzione, dietro le masse che passano dall’eroismo ai massacri più cruenti, dall’esaltazione all’abbandono, dal senso di sconfitta al delirio di onnipotenza, c’è sempre qualcuno che le agita e infiamma, che, pure con totale grettezza d’animo e impreparazione culturale, sa, attraverso immagini, formule e parole quasi magiche, aizzarle verso un obiettivo.
Ecco, le immagini, che riportano la questione a un’epoca come la nostra satura, fino alla pazzia sociale di questi giorni, di tele-sollecitazioni e input indiscernibili su un piano di conoscenza e di riscontri oggettivi. La folla pensa per immagini, va verso tutto quello che è “meraviglioso” e leggendario, narrabile a metà, scatenante e convincente all’impronta, non catalogabile e scientificamente circoscrivibile. Non ha pazienza, esegue, si abbatte sulla realtà, non cerca genealogie e tessiture, comprensioni asettiche dei problemi, sgrana gli occhi, anzi, e sfascia nell’ansia premonitrice di una costruzione universalizzante che quasi sempre è delirante e impropria.
Le Bon, da vero profeta delle catastrofi tecnologiche novecentesche, attribuisce anche alla stampa delle responsabilità: essa non esercita più una direzione morale dell’opinione pubblica, ma la sa solo “spiare” e dunque le mobilitazioni più imperiose, disturbanti e disgreganti non possono che emanciparsi da ogni ordine etico e razionale. Si riaccorpano, ma sotto l’egida di governi illetterati, capipopolo dalla spada facile e informatori legati alla borsa, non alla vita. Ci separano davvero 125 anni dal barbuto Gustave?