A furia di raccontarla, questa storia dell’Italia che può fare a meno dell’Europa rischia di diventare realtà. Ieri in una nuova intervista a un giornale non a caso tedesco, il premier Giuseppe Conte ha lanciato l’ultimo avvertimento. Se le trattative per condividere i danni economici del Coronavirus non usciranno dallo stallo, non saremo davanti a un semplice incidente di percorso, ma avremo la prova provata di quanto l’Unione europea sia ormai a corto di solidarietà e di futuro. A differenza dei partiti sovranisti, che pur di acchiappare voti scaricano ogni nefandezza su Bruxelles, anche le colpe che non ha, il nostro Presidente del Consiglio e le forze della maggioranza su cui si sorregge hanno dato giganteschi segnali di apertura e disponibilità al dialogo, purché su basi diverse da quelle dell’austerità imposte nel passato.
Un’Europa che sa affrontare compatta i problemi ha una forza di cui abbiamo tutti bisogno. Ma se invece di un aiuto, ci tocca essere messi in castigo dall’Olanda, cioè l’ultimo dei Paesi che può parlare, allora tanto vale cominciare a pensare a qualcos’altro e prendere atto che il grande progetto europeo è destinato presto o tardi a fallire. Gli inglesi, d’altra parte, se ne sono già andati, e se non c’è dubbio che i fan di Salvini e Meloni vaneggiano quando parlano con faciloneria di Italexit, è anche vero che la situazione attuale ci permette solo di comprare tempo, mentre attorno al collo ci stringono il nodo del debito. Siamo in una trappola, insomma.
Un classico caso in cui la cosa più stupida da fare è spingerci dentro ancora più in profondità, magari abboccando all’esca del Mes, cioè l’anticamera del passaggio di proprietà del nostro Paese. Così il capo del Governo, un signore che i giornali di destra sfottono chiamandolo Giuseppi per rimarcare una sua (mai vista) elasticità di fronte a Trump, e per estensione alle grandi cancellerie, si trova a un bivio che non avrebbe immaginato: dopo aver sempre cercato un punto di mediazione, rischia di diventare l’uomo della clamorosa rottura con i partner europei, e dell’apertura di una strada nuova e senza ritorno, dove gli Stati risolvono anche i problemi più gravi spezzando le catene delle regole comuni. In questo modo ci esporremo al costo di un maggiore fabbisogno pubblico senza lo scudo degli Eurobond (e questo ci costerà caro), ma a tal punto potremo smetterla di far finta di niente mentre i cari alleati ci bastonano nelle parti basse, magari adottando sconti fiscali con cui ci scippano le imprese.
LA GRANDE FUGA. Proprio su questo – specialità della casa per gli olandesi – siamo rimasti inermi malgrado gruppi industriali rilevantissimi abbiano fatto i bagagli dall’Italia per Amsterdam. Si tratta, per capirci, dell’ex Fiat, di Fininvest, di Cementir (Gruppo Caltagirone), di Campari, e l’elenco sarebbe lungo, senza contare persino le maggiori partecipate dello Stato che hanno consociate con sede legale nei Paesi bassi. Tutte aziende che gli ultimi governi hanno visto cominciare a espatriare senza neppure provare a mettere un argine, in ossequio alla libera circolazione delle attività economiche pur in assenza di regole fiscali comuni. Un errore gravissimo, anche perché una volta fatta la moneta comune, armonizzare i sistemi tributari era la cosa più urgente da far seguire per non avvantaggiare qualcuno e svantaggiare qualcun altro.
Di tutto questo però non si è visto niente, se non generici impegni mai concretizzati. L’Italia, perennemente debole ai tavoli negoziali per via del nostro stare sempre col cappello in mano a chiedere deroghe sul deficit, non ha mai alzato la voce o fatto problemi. Se adesso però il gioco si rompe, c’è da attendersi tutta un’altra musica. E non è detto che alla fine delle danze di questa Europa egoista e mercantile resti qualcosa.