di Vittorio Pezzuto
Volevano sovvertire lo Stato borghese e pur di imporre la loro ideologia rivoluzionaria non hanno esitato a commettere furti, rapine a mano armata, sequestri e omicidi. Adesso che la storia e lo Stato democratico li hanno sconfitti si rivolgono alle borghesissime aule di giustizia per chiedere di essere dimenticati e la Cassazione riconosce loro il “diritto all’oblio”.
Il principio è stato ribadito lo scorso 26 giugno dalla terza sezione della Suprema Corte in occasione di un ricorso presentato dai legali dell’ex terrorista Cipriano Falcone che nel 1998 aveva intentato causa al “Corriere della città e provincia di Como”, chiedendo il risarcimento dei danni conseguenti alla pubblicazione il 4 gennaio 1998 di un articolo nel quale erano stati riportati notizie e dati personali riservati ponendoli in collegamento con il ritrovamento, nella città di Como, di un arsenale di armi appartenente alle Brigate Rosse. Il giorno dopo il quotidiano aveva poi pubblicato, accanto a una sua fotografia, un’intervista da lui mai rilasciata e corrispondente al contenuto di una telefonata in cui chiedeva di essere dimenticato.
Risarcimento di 30mila euro
Ritenendosi diffamato, Falcone aveva così intentato causa alla testata e chiesto il risarcimento dei danni subìti: arrestato nel 1979 in quanto appartenente al gruppo terroristico “Prima Linea” e uscito ormai dal carcere dopo aver scontato la sua condanna, precisava infatti «di essere riuscito, con enormi sforzi, a costruirsi una propria vita, sicché desiderava non essere più accostato agli occhi della pubblica opinione a fatti di terrorismo, trattandosi di una parte della sua esistenza ormai chiusa, rispetto alla quale voleva soltanto essere dimenticato». Persa la causa in primo grado, Falcone si era visto dare ragione il 1 dicembre 2006 dalla Corte d’appello di Milano. Questa aveva infatti evidenziato che nella circostanza mancava l’interesse pubblico alla diffusione della notizia e che comunque estrarre dall’archivio del giornale e pubblicare una sua foto risalente agli anni della militanza terroristica costituiva una chiara violazione della normativa sulla privacy. La Corte censurava inoltre la rievocazione, a distanza di così tanti anni, di una serie di eventi così personali e dolorosi, «dal momento che essi fatti non avevano al momento della pubblicazione alcuna attinenza con il pubblico interesse né tanto meno presentavano aspetti di rilievo sociale». Nel decidere la quantificazione del danno subìto (poi fissato in 30mila euro a carico dei giornalisti e dell’editore), i giudici tenevano conto della «potenzialità lesiva delle notizie diffuse, della capacità diffusiva del veicolo dell’informazione nonché della possibilità che il Falcone sia stato riconosciuto ed individuato al di là della cerchia dei soggetti a lui più vicini». Una tesi contro la quale si sono inutilmente appellati in Cassazione i legali del quotidiano, per i quali questo tipo di informazioni – entrate ormai a far parte della memoria storica collettiva – possono essere rievocate senza limiti temporali: la partecipazione di Falcone a “Prima Linea” costituisce un dato pacifico, noto all’opinione pubblica e di interesse generale, rispetto al quale non è configurabile un diritto all’oblio. Anche perché lo stesso ex terrorista aveva diffuso a suo tempo, con una lettera inviata ai giornali, una sintesi della propria vicenda personale.
L’ergastolo della sofferenza
La Suprema Corte ha rigettato le loro argomentazioni, stabilendo l’arbitrarietà dell’accostamento di Falcone al ritrovamento – nella sua zona di residenza – di un arsenale delle Brigate Rosse: una notizia ritenuta non “essenziale” e quindi insufficiente a superare i limiti imposti dal Garante della privacy alla diffusione dei dati sensibili.
Al di là della specifica vicenda, la sentenza n. 16111 della Cassazione ribadisce così un principio discutibile: il diritto di un ex terrorista a essere dimenticato «può cedere il passo al diritto di cronaca solo in quanto sussista un interesse effettivo e attuale alla diffusione della notizia; diversamente argomentando, altrimenti, si finirebbe col riconoscere una sorta di automatica permanenza dell’interesse alla divulgazione, anche in un contesto storico completamente mutato».
Bisognerebbe spiegarlo di familiari delle loro vittime, condannati all’ergastolo della sofferenza e del ricordo, non di rado costretti a guardare in tv o a leggere sui giornali le interviste di chi imbracciò le armi per sovvertire lo Stato e che oggi si atteggia a maître à penser di un’intera generazione.