di Vittorio Pezzuto
In un Paese normale non avrebbe senso che un imprenditore si senta in dovere di comunicare al Capo dello Stato di avere raddoppiato le quote proprietarie di un quotidiano nazionale. Da noi invece accade perché il vassallaggio è sempre di moda, e viene esibito con orgoglio in prima pagina.
Rassegnamoci: viviamo da tempo in una Repubblica presidenziale, a nostra insaputa. Mentre la Commissione dei 40 costituzionalisti continua a riunirsi fiaccamente per elaborare teoriche proposte di riforme della Carta, il nostro Paese si avvita in una recessione economica e istituzionale aggrappandosi smarrito all’unica autorità rimasta: quella di Giorgio Napolitano, il bi-presidente della Repubblica chiamato a riempire i vuoti politici lasciati da partiti inerti, inutilmente rissosi come i capponi di manzoniana memoria. L’inquilino del Colle più alto è ormai il perno nazionale intorno al quale tutto ruota, soprattutto quel poco di politica che ancora rimane. Dichiara, lancia moniti, decide governi e loro durata, sferza il Parlamento, riceve e consiglia. Il gran Geppetto delle sorti nazionali si permette addirittura un ironizzare sommesso sulle improbabili minacce di addio al governo formulate in queste ore da Mario Monti, il suo burattino mal riuscito. E in questo non riusciamo nemmeno a dargli torto, che la sortita dell’ex premier è servita solo a ricordarne la pallida esistenza. Viene addirittura il sospetto che sia proprio per colpa del tecnocrate che volle farsi leader se Napolitano sembra riluttante a concedere nuovi laticlavi a vita. E dire che i posti non mancano e le ambizioni dei singoli neppure (guardate cosa non s’inventa Eugenio Scalfari pur di guadagnarsi nuovi crediti). Ma il presidente, che nei confronti di questo Parlamento si limita a ostentare un rispetto formale, sembra concentrato in mansioni molto più ambiziose: tenere a galla il sistema, senza però stravolgerne gli assetti.
In fondo questo gagliardo comunista che ha appena compiuto 88 anni (auguri!) gioca da par suo il gran gioco della politica, quello di chi è costretto a impastare decisioni con gli ingredienti che si trova sottomano. A ben pochi sembra davvero importare che la sua azione inesausta travalichi ormai gli argini fissati dalla Costituzione formale: siamo un Paese rassegnato all’emergenza, che baratta volentieri le sue regole scritte in cambio dell’illusione che un uomo solo al comando gli consenta di tirare a campare senza troppi traumi riformatori. Perché, nonostante l’immensa pubblicistica prodotta in questi anni, si è ormai capito che all’italiano va bene tutto tranne cambiare le proprie abitudini. E che più s’invocano le riforme radicali (per il vicino, ovvio, mai per sé) più si cerca rassicurazione nell’usato sicuro. L’amministrazione della cosa pubblica deve restare opaca, le regole economiche improntate a corporativismo discrezionale, gli ascensori sociali bloccati dal familismo amorale.
Solo chi non l’ha ancora capito può trovare incomprensibile l’attendismo esasperato di Enrico Letta: gran specialista della convegnistica ed esperto tessitore di relazioni bipartisan formato network, questo giovane democristiano dal sapore antico gode di una copertura totale dal Quirinale. Avrebbe tutto l’interesse a supportare con qualche tangibile successo l’ambizione a ricoprire (in un prossimo futuro) prestigiosi incarichi europei ma di slittamento in slittamento preferisce ridursi al piccolo cabotaggio, pronto a dissolversi in un tramonto dai colori tenui e impalpabili. Sa di poterselo permettere, con una grande stampa così acquiescente al suo gran Tutore.
Alternative in giro intanto non se ne scorgono. Con quel ragazzaccio di Matteo Renzi che si sta autoconsumando in annunci e interviste nella speranza che il corpaccione del Pd che vorrebbe riformare non semini di tagliole la sua annunciata ascesa a segretario e (forse) a candidato premier. E con Silvio Berlusconi impantanato nella sua isola d’Elba giudiziaria, che vagheggia un nuovo sbarco a Palazzo Chigi e intanto organizza il quadrato delle sue truppe più fedeli. A lui Napolitano ha già fatto chiaramente intendere che non è aria per elezioni anticipate e che in caso di tradimento dei patti è già pronto a varare altre larghe intese, ma di segno ben differente. C’è da credergli. Si rassegni quindi, e la smetta anche di lamentarsi che Re Giorgio non è intervenuto in suo favore presso la Consulta e il tribunale di Milano. E che cavolo, non siamo mica in una Repubblica presidenziale! Qualche volta la Costituzione formale va pure rispettata…