Il decreto Cura Italia verrà accorpato a tutti i precedenti decreti già presentati per far fronte all’emergenza Coronavirus (giustizia, sanità, prime misure economiche). Ma a causa dell’ostruzionismo della Lega, che il dem Andrea Marcucci definisce “inutile e deleterio”, non è stato possibile per la capigruppo del Senato dare semaforo verde a un esame veloce nella sola commissione Bilancio. Il Carroccio ha insistito perché tutte le commissioni competenti siano convocate per rendere il parere sul testo, che minacciano di non votare qualora non venisse cambiato.
LE SCADENZE. La Bilancio inizierà l’esame del testo in sede referente il 23 marzo, mentre le commissioni coinvolte dovranno rendere i loro pareri tra il 25 ed il 26 di marzo. I senatori dovranno venire in commissione, dunque, per assicurare il numero legale. La Lega non ha accettato il calendario proposto, che dovrà essere votato in aula il 26 marzo. Il giorno prima si terrà una nuova capigruppo per trovare un accordo sulle modalità di voto compatibili con le disposizioni anti Covid-19 del governo. Il decreto dovrebbe andare in aula l’8 Aprile, “come termine indicativo”. Eppure la Lega sull’ipotesi del voto a distanza non aveva manifestato uguale stacanovismo. A favore del voto on line si era schierata una parte dei dem. Vedi Emanuele Fiano.
E la proposta aveva sedotto subito la Lega. Con una lettera, il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari invitava i vertici di Montecitorio ad affrontare la questione, annunciando anche la presentazione di una proposta di modifica del regolamento per consentire il voto a distanza attraverso la piattaforma GeoCamera già perfettamente attiva. Poi un surplus di riflessione ha indotto a un ripensamento. Quale effetto boomerang sui cittadini avrebbe potuto scatenare la vista delle aule vuote delle Camere con i parlamentari a votare da casa con il mouse? Se oltre ai medici e agli infermieri scendono in trincea anche cassieri e fornai, che figura avrebbero fatto i parlamentari a darsela a gambe? Non è un caso che un politico di lungo corso come Giancarlo Giorgetti abbia respinto l’idea del voto a distanza.
Ma assicurare un iter veloce al decretone che ridà ossigeno a famiglie, imprese, e lavoratori era altro discorso che, però, gli uomini di Matteo Salvini non hanno voluto intendere. Già in mattinata avevano bocciato la proposta del numero uno della Camera Roberto Fico di affidare a una Commissione speciale “l’istruttoria di tutte le leggi sottoposte all’esame della Camera”, ferma restando la deliberazione finale dell’Aula. “La Lega – ha tuonato Salvini – chiede la convocazione immediata del Parlamento, deputati e senatori lavorino, come tanti altri italiani fanno in queste ore difficili”. Idem FdI. “Noi vogliamo lavorare, fateci lavorare”, l’urlo di battaglia di Giorgia Meloni. A cui si sono aggiunti gli appunti della presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati a non limitare le prerogative parlamentari.
Anche sul fronte opposto sono aumentati gli appelli a che il Parlamento lavori. Ma occorre fare dei distinguo, appunto, che fanno chiarezza sugli smemorati stacanovisti della Lega. Nel Pd a sostenere l’ipotesi del voto a distanza pare rimasto solo Stefano Ceccanti e, come ultima spiaggia, Graziano Delrio. Tra i dem, c’è chi non l’ha mai considerata come Marcucci. Contrari anche renziani, Leu e i Cinque Stelle. I pentastellati hanno da subito mostrato freddezza all’idea e non si sono mai stancati di ripetere in queste ore, come ha fatto il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, che le Camere devono restare aperte e lavorare.