di Nicoletta Appignani
“Mister 7%”. Già il nome la dice lunga, sui costumi attribuiti a Pasquale De Biase. Segno che la voce di suoi comportamenti non proprio ortodossi in seno al ministero di Grazia e Giustizia in qualche modo già era diffusa, anche prima delle manette scattate ieri mattina: a stringergliele ai polsi i carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma con accuse che vanno dall’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti di corruzione alla turbativa del Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (il cosiddetto MePa), ma anche alla turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Un arresto pesante, visto che De Biase altri non era che un dipendente della Direzione generale dei Servizi informatici automatizzati del Ministero della Giustizia. Vale a dire, un personaggio con le mani in pasta nella gestione di tutta una serie di lucrosi appalti del dicastero di via Arenula. Non da solo, ovviamente. Con lui sono state arrestate altre cinque persone, tutte finite in carcere su ordine del gip di Roma Simonetta D’Alessandro. Si tratta di R. M. , dipendente della Dell; M. L., proprietario della Ml2.Nel; N.B., amministratore della DottCom; A. M. della Vmg; infine M. P. della Dli. Una settima persona invece è stata raggiunta dalla misura cautelare, che tuttavia – almeno fino a ieri sera – non era stata ancora eseguita. Carcere per tutti tranne che per Riccardo Mariani, l’unico ai domiciliari.
Le accuse
Già, ma quali sono gli episodi contestati dalla procura di Roma alla gang degli appalti elettronici? Gli eventi accertati secondo le accuse sono parecchi e spaziano in un arco temporale che va dal dicembre 2010 al maggio 2012. Fra i vari reati, come detto, anche la “turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”: una novità, applicata in Italia solo pochissime volte – ad esempio nell’aprile scorso quando venne arrestato il sindaco di Cortina d’Ampezzo – visto che il reato è stato introdotto nel codice penale solo nel 2010. Una norma pensata per coprire la fase di indizione della gara, in particolare quella di approvazione del bando, per scoraggiare un vecchio trucco usato dai tangentisti della pubblica amministrazione: il fenomeno dei cosiddetti “bandi-fotografia”, e cioè quei bandi di gara che contengono requisiti talmente stringenti da ridurre al minimo, magari a uno solo, la platea dei potenziali concorrenti. E in pratica proprio questo secondo i carabinieri e i magistrati inquirenti – il procuratore aggiunto Francesco Caporale con il sostituto Ilaria Calò – è lo scenario in cui si muovevano gli arrestati, strutturati in sostanza come una sorta di “comitato d’affari”.
Un meccanismo ben oliato
Ad accendere i riflettori sul gruppo, una denuncia presentata della sede della Dell di Montpellier, i cui responsabili si erano accorti che alcuni loro dipendenti avevano stretto un accordo con il funzionario del Ministero della Giustizia. Gli investigatori si sono trovati di fronte a un meccanismo ben oliato – a suon di quattrini – che consisteva in un rapporto privilegiato con l’Amministrazione dietro il pagamento di tangenti, escludendo di fatto altri possibili concorrenti nell’aggiudicazione dei contratti di fornitura di materiali informatici. Tutto questo ovviamente in chiaro disprezzo degli interessi del Ministero. “Non si favoriva ovviamente l’interesse della pubblica amministrazione – spiegano fonti della procura – a volte i prodotti erano acquistati addirittura a un prezzo superiore a quello di mercato”. E di parecchio, a giudicare da qualche numero: un software disponibile sul mercato a 450 euro il Ministero lo comprava a mille, un altro prodotto in vendita a 51 euro acquistato per 500. Perfino una workstation da 190 euro moltiplicata nel costo di denaro pubblico fino a cinque volte: per gli uffici di via Arenula il prezzo era di mille euro. Non solo. Il gruppo d’affari aveva anche studiato un sistema per garantire una certa regolarità nell’assegnazione degli appalti. I vari imprenditori che aderivano al sistema attendevano il proprio turno di aggiudicazione della gara. E ogni volta pagavano il “dovuto”: una commissione oscillante intorno al 7 o all’8%.