Dovrebbero pesargli sulla coscienza le 392 vittime causate dalla “sua” Eternit e invece niente. Per l’imprenditore svizzero Stephan Ernest Schmidheiny il problema sono solo gli “odiosi italiani” e la nostra giustizia che in passato lo ha condannato a 18 anni di carcere, salvo farla franca per le lungaggini della stessa, e ieri lo ha nuovamente rinviato a giudizio. Questa volta l’accusa è di quelle che fanno tremare i polsi: omicidio volontario. La vicenda giudiziaria, tutt’altro che inedita, fa riferimento al decesso di 392 persone a Casale Monferrato, in Piemonte, a causa delle conseguenze dell’esposizione all’amianto.
DA CARNEFICE A VITTIMA. Contestazioni che finiranno in un nuovo procedimento, davanti alla Corte d’Assise di Novara, con la prima udienza del procedimento già fissata per il prossimo 27 novembre. Così in un ottica deforme dove il presunto carnefice si traveste da vittima, il tutto a sfregio delle famiglie di chi ha perso la vita a causa del disastro ambientale causato dall’azienda, anziché chiedere scusa, l’ultimo patron della Eternit ha pensato bene di rilasciare un’intervista al vetriolo contro il nostro Paese. Lo ha fatto al giornale elvetico Nzz am Sonntag a cui, in modo del tutto gratuito, Schmidheiny ha dichiarato: “Quando oggi penso all’Italia provo solo compassione per tutte le persone buone e oneste che sono costrette a vivere in questo Stato fallito”.
Un lato caritatevole nei confronti degli italiani che in realtà nascondeva ben altri pensieri. Proprio quelli che l’imprenditore rivelava qualche riga dopo quando, affrontando il tema della richiesta di rinvio a giudizio che pendeva sulla sua testa, raccontava tutto il suo disprezzo verso la giustizia italiana: “Non ho intenzione di vedere una prigione italiana dall’interno. Alla fine il mio comportamento sarà giudicato correttamente e un giorno verrò assolto”. Basterebbero queste parole per indignare eppure l’uomo, nella stessa intervista, è riuscito a fare anche di peggio.
Questa volta, parlando del suo presunto calvario che – è bene ricordarlo – gli era valso una condanna sventata solo dall’intervento della prescrizione, ha detto: “Ho capito che mi sarei dovuto occupare della mia igiene mentale per non lasciarmi abbattere da tutti questi incredibili attacchi. Mi sono reso conto di provare dentro di me un odio per gli italiani e che io sono il solo a soffrire per questo”. Peccato che si tratti di un falso perché oltre al dolore, quello vero, provato dalle famiglie delle vittime, c’è anche quello di un Paese intero che ha subito i veleni di quella che sembra una spregiudicatezza imprenditoriale senza precedenti nella storia del nostro Paese.
GIUDIZIO PESANTE. Un’intervista che, inevitabilmente, è finita anche al centro dell’udienza di ieri. A tirarla fuori è stato il pubblico ministero Gianfranco Colace che, nella sua arringa, ha detto che “Schmidheiny, ancora oggi, dimostra nessuna pietà verso le persone che sono morte a causa dell’amianto” e che “tutt’ora si ammalano e muoiono persone che non hanno mai messo piede in quella fabbrica”. Tesi che sono state accolte dal gup, Fabrizio Filice, che ha rilevato anche come l’imputato, all’epoca dei fatti, era già perfettamente consapevole dei rischi che comportava la fibra di amianto, perché le conoscenze scientifiche dell’epoca lo avevano accertato oltre ogni ragionevole dubbio.
Una conoscenza che anziché spingerlo a porre rimedio, sempre secondo le tesi dell’accusa, lo convinceva a mettere in atto un programma di controinformazione affinché i lavoratori non sapessero degli effetti devastanti delle polveri. Di tutt’altro avviso i legali dell’imprenditore svizzero, gli avvocati Astolfo Di Amato e Guido Carlo Alleva, che hanno preannnunciato battaglia: “Siamo delusi, ovviamente, ma per fortuna il procedimento non finisce qui”.