Se è stato semplice ricostruire la cronaca di un addio annunciato, di gran lunga più complicato è disegnare gli scenari che il passo indietro di Luigi Di Maio, da capo politico del M5S, spalanca. Sul tavolo a oggi ci sono poche certezze. La prima è quella indicata dal numero uno della Farnesina nel suo lunghissimo discorso di commiato al Tempio di Adriano. Con le sue dimissioni la reggenza del Movimento, come da regolamento, passa a Vito Crimi (nella foto), membro anziano del comitato di garanzia. I facilitatori nazionali e regionali saranno confermati e risponderanno a lui. Debutteranno lavorando all’organizzazione degli Stati generali che si terranno a marzo, quando si consumerà – è presumibile – una vera e propria battaglia congressuale con tanto di mozioni contrapposte.
Sarà in quell’occasione che verrà discussa la nuova carta dei valori del Movimento: il “cosa”, sintetizza il ministro degli Esteri. Ma chi si aspetta che da lì possa anche uscire l’identikit del suo successore dovrà ricredersi. “Subito dopo gli stati generali, come già d’accordo con Vito – dice Di Maio – passeremo al chi”. Gli Stati generali saranno la sede dove si scioglierà il rebus sulla collocazione futura del Movimento Cinque Stelle: approdare nell’area riformista e progressista, come auspicano quanti puntano a irrobustire l’accordo con i dem secondo le indicazioni del fondatore Beppe Grillo, o continuare a fare l’ago della bilancia, la cosiddetta ‘terza via’ equidistante dal centrosinistra e dal centrodestra, come ha sempre sostenuto Di Maio.
IL MOVIMENTO. E ancora: se per la leadership sia il caso di puntare ancora su un uomo solo o se sia da preferire la collegialità richiesta a gran voce da big come Roberto Fico, Roberta Lombardi, Stefano Patuanelli. A mettere nero su bianco le richieste di una maggiore collegialità e di una scelta di campo (quello riformista) precisa sono stati i tre senatori Primo Di Nicola, Emanuele Dessì e Mattia Crucioli in un documento presentato profeticamente una decina di giorni fa. Pre chiedere anche una netta separazione tra le cariche interne al Movimento e quelle di governo. Patuanelli è più volte stato indicato come l’erede naturale di Di Maio e il suo nome è tra quelli più accreditati per assumere intanto l’incarico – pure questo lasciato dal ministro degli Esteri – di capodelegazione del Movimento al governo. Grillo però, pur nella prospettiva di concedere maggiore collegialità, rimane convinto che serva un referente unico a cui far risalire decisioni e scelte importanti. La domanda rimane la stessa: chi?
IL GOVERNO. Oltre a Patuanelli – che da ministro si troverebbe nella stessa condizione del predecessore – si fanno i nomi della sindaca di Torino Chiara Appendino, della vicepresidente del Senato Paola Taverna, della Lombardi, di Alessandro Di Battista, del capo dello staff della sindaca di Roma, Max Bugani. E c’è chi non esclude un possibile ritorno di Di Maio. Magari se dopo la fase turbolenta in cui i 5 Stelle – scommettono i suoi collaboratori – dovesse precipitare una volta rimasto senza guida. “Ci sarò e non mollerò mai”, ha scandito ieri. Bisogna solo capire in cosa si sostanzierà il suo “non mollare”. Determinante ancora una volta potrebbe essere l’esito delle Regionali. L’eventuale vittoria, o la sconfitta, del candidato del Pd, soprattutto in Emilia, potrebbe mettere di nuovo sulla graticola Di Maio che a quelle elezioni non aveva nessuna voglia di partecipare. Fu, com’è noto, la scelta pasticciata di affidare a Rousseau la decisione di correre o meno a sconfessare la sua proposta di una pausa elettorale. A cui fece seguito, dopo il responso degli iscritti, la risoluzione a ballare da soli.