Voce di popolo – si dice – voce di Dio. Ma seppure quasi tutti i giornali sparino a senso unico sul ruolo marginale dell’Italia e del ministro Luigi Di Maio nella crisi libica, qui si capisce perché il suddetto popolo alla stampa crede pochissimo, e a buona ragione. Lasciamo perdere perciò quelle che sono libere opinioni piuttosto che notizie (Di Maio, gli Esteri non sono il suo mestiere, Lucia Annunziata; La tragedia di un ministro ridicolo, Dagospia; Governo raccapricciante: più che agli Esteri Di Maio lo avrei mandato all’estero, Vittorio Feltri; ecc. ecc.) e vediamo quanti generali e capi di Stato nel bel mezzo di una guerra lasciano le loro truppe per andare a Palazzo Chigi, come ha fatto ieri Haftar e come fino all’ultimo era in programma che facesse il suo nemico Al Sarraj.
Mentre la Germania della quale si cantano solo lodi per l’influenza e la capacità di chi la governa non riesce neppure a fissare la data della conferenza di pace prevista a Berlino, l’incapace Governo di Roma era riuscito persino a far stringere la mano ai grandi contendenti al vertice di Palermo. Un successo clamoroso che ha contribuito a tenere il conflitto attorno a Tripoli per oltre un anno a bassa intensità, prima che la situazione degenerasse per un’evidentissima novità. Quel fesso di Di Maio, come ormai viene definito da tutto il mainstream senza un briciolo di onestà intellettuale, si è rifiutato di dare al nostro alleato Al Sarraj le armi che chiedeva, per il semplice motivo che quel manualetto chiamato Costituzione vieta al nostro Paese di fomentare le guerre.
Così al nostro posto si è offerto di mandare truppe e mezzi il sultano turco Erdogan, inserendosi in una partita di spartizione egemonica su quell’area che lo vede apparentato con Putin, altro leader con gli stessi problemi di consenso democratico in casa propria e perciò determinato a blindare il proprio potere in patria usando la leva del nazionalismo. Nulla di diverso da quanto sta facendo Trump, anche lui alle prese con le difficili elezioni presidenziali e ancor di più con l’impeachment. Due ottimi motivi, insomma, per tirare un missile sul leader iraniano Soleimani, con una spregiudicatezza che avrebbe già fatto scoppiare una tempesta militare se a parti invertite lo stesso trattamento fosse stato riservato a un componente dell’Esecutivo americano.
In tutto questo caos, l’Italia sta tenendo quasi da sola le redini della diplomazia, spingendo un’Europa afona e inesistente come entità politica unitaria, mentre i singoli Paesi attendono gli eventi per farsi come meglio possono gli affari loro, a cominciare dalla Francia che proprio sullo scacchiere libico ha responsabilità storiche, assetata dell’energia che da sempre prova a sottrarre agli accordi commerciali con l’Italia. Ora, da tutti questi egregi commentatori che massacrano allegramente Conte e Di Maio sarebbe interessante sapere cosa dovrebbero fare di diverso i nostri premier e ministro degli Esteri, tipo mandare le truppe in una nuova guerra coloniale di cui si farnetica a Destra? Oppure spedire nuovi e più calorosi tweet di congratulazioni a Trump per aver portato il mondo sull’orlo di una guerra mondiale, solo perché siamo leali alleati nella Nato e qualcuno dei giornalisti più genio degli altri ci racconta favole tipo quella dell’Iran che ha già perdonato Washington?
Una ricostruzione, quest’ultima, tutta da dimostrare mentre volano le bombe sulle basi Usa e i militari italiani non si capisce a che titolo restano in un Paese sovrano che ci ha chiesto di andarcene. Ma per i nostri sovranisti alle vongole l’autodeterminazione dei popoli è un concetto che va bene a fasi alterne e soprattutto a patto di non disturbare il manovratore americano, non sia mai che col rumore dei bombardamenti gli sia sfuggito il cinguettio ruffianeggiante di Salvini.