Alla fine per non scontentare nessuno ha scontentato tutti. Ma del resto, come scrive il Manzoni “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. In queste poche righe si può riassumere la triste parabola dell’ Ad Rai, Fabrizio Salini (nella foto), che sulla carta, grazie alla legge di riforma voluta dal governo Renzi nel 2015, avrebbe poteri che i suoi predecessori direttori generali si sognavano: dalle mani libere sulle nomine alla firma dei contratti fino a 10 milioni di euro. Le nomine, appunto: neanche oggi in cda procederà ad indicare i nuovi direttori di rete, tg e i tanto attesi “superdirettori” di genere previsti dal piano industriale.
È infatti prassi, se non obbligo, che il capo azienda Rai faccia avere al consiglio, entro le 24 ore precedenti la riunione, i curricula delle persone per le quali avanza proposta di nomina. E i curricula non ci sono. Ci sarà invece, molto probabilmente una sorpresa per Salini. Mangerà il panettone ormai, ma non è detto che arrivi oltre: unico limite all’azione dell’Ad è infatti nella facoltà del Consiglio di amministrazione di licenziarlo. Ipotesi non del tutto peregrina, intanto i consiglieri Rita Borioni e Rodolfo Laganà potrebbero disertare il cda odierno per protesta. Mai si era verificata in azienda una tale irritazione, dall’ultimo dei produttori ai dirigenti, tutti sgomenti e annichiliti da una paralisi senza precedenti.
Un paradosso pirandelliano: un Ad indicato da un movimento che professava “fuori la Rai dai partiti” che paralizza la prima azienda culturale del Paese, che impiega 13.058 dipendenti, di cui 1760 giornalisti, invischiata nelle solite clientele, nel solito gioco di veti incrociati e di diktat che, guarda caso vengono proprio dai partiti. Un estenuante braccio di ferro che va avanti da settimane su un unico nome, quello dell’ex dg Mario Orfeo, attualmente presidente di Rai Way. A porre il veto assoluto sul suo nome un irremovibile Luigi Di Maio, ma sia il segretario dem Nicola Zingaretti che il ministro e capo delegazione Pd nel Governo Dario Franceschini hanno puntato tutte le loro fiches su Orfeo alla direzione del Tg3 e non hanno intenzione di mollare.
A nessuno piace perdere la faccia, ma il punto non è questo: Salini, come previsto dai suoi poteri, avrebbe potuto intanto procedere con le nomine delle reti, visto che a crollare, tra gennaio e settembre 2019 sono gli ascolti di quasi tutte le reti del gruppo ma soprattutto Rai 1, dove sarebbe dovuto arrivare da Rai 3 Stefano Coletta. Ancora più drammatica la situazione di Rai2: mai si era verificata l’evenienza che un Ad si assumesse l’interim di una rete che peraltro versa in una temibile crisi di identità e di ascolti. Sarebbe dovuto arrivare Ludovico Di Meo, dirigente di lungo corso e uomo “di prodotto” mentre a dirigere Rai 3 era dato per certo il giornalista Franco Di Mare. Invece niente di tutto ciò, e non si sa per quanto questa imbarazzante situazione perdurerà, con dati allarmanti anche per il fatturato pubblicitario, ovviamente: l’azienda perde il 4% di share durante la fascia della prima serata, cioè quella più importante per gli investimenti pubblicitari.
Ma del resto i novelli Don Abbondio associano ad una connaturata viltà anche un peloso opportunismo, quel che interessa loro non è certo il bene di ciò che sono chiamati a immeritatamente a gestire, ma solo una personale convenienza o presunta tale, visto che agiscono in cambio di presenti concessioni o future promesse: presumendo la male parata, in occasione magari di scadenze elettorali, abbandonano la nave alla ricerca di una zattera, salvo poi ritrovarsi naufraghi di entrambe.