“Per Taranto puntare su unico polo industriale, ovvero l’acciaio, è sbagliato. La città ha bisogno di una bonifica dei terreni, di una decontaminazione dell’ambiente e di una riconversione del suo modello di sviluppo. Lo scudo penale? Una barbarie medioevale”. Ha le idee chiare Alessandro Marescotti, presidente dell’associazione di volontariato Peacelink, sulla crisi dell’ex Ilva. Insegnante di Lettere a Taranto, è balzato agli onori della cronaca per aver sciorinato di fronte a Luigi Di Maio dati e percentuali di emissioni tossiche dell’ex Ilva.
Come siamo arrivati a un passo dalla chiusura?
“Ci sono state diverse questioni. Quella economica, con le perdite. I vari incidenti che si sono succeduti. L’ultimo, in cui è morto un operaio, ha portato al sequestro di tutta la banchina dove venivano scaricate le materie prime. Che attualmente non arrivano più attraverso le navi ma con i camion. E questo determina difficoltà ad alimentare gli altiforni e aumento dei costi. Terza questione: il venir meno di una copertura legale per chi gestisce questi impianti pericolosi. E poi la valutazione sanitaria che ha rilevato un rischio inaccettabile. Tutte questo ha determinato una situazione che ArcelorMittal non aveva previsto. Sebbene alcuni sostengano che l’azienda avesse invece messo in conto di andar via con l’obiettivo di portarsi via il portafogli clienti per avere un vantaggio nonostante le perdite”.
La cosiddetta “crisi pilotata”…
“In questo caso dovrebbero interrogarsi i governi che hanno fatto questa scelta. Se sapevano che ArcelorMittal era capace di fare queste cose è incredibile come sia stato deciso di dare in affitto, e non di vendere, lo stabilimento”.
Il senatore M5S Primo Di Nicola propone di chiudere e delocalizzare lo stabilimento a debita distanza dal centro abitato con nuove tecnologie non inquinanti. Le pare una proposta condivisibile?
“Necessaria, se si dovesse fare la scelta di continuare a produrre acciaio. Ora la distanza è di soli 200 metri. Ma l’Ilva non è in difficoltà solo per problemi ambientali e sanitari ma anche per il suo gigantismo. Deve prendere atto che il mercato è cambiato, si parla di crisi generata da eccesso di capacità produttiva. La scelta dovrebbe essere rimpicciolire stabilimento e obiettivo di pareggio, magari con la chiusura dell’area a caldo”.
Molti propongono un processo di decarbonizzazione…
“E’ una scelta che potrebbe essere utile ma anche nel caso di una fabbrica decarbonizzata serve il parere di esperti di valutazione preventiva del danno sanitario”.
Ritorniamo allo scudo penale. Secondo lei ha davvero scoraggiato l’azienda il suo venir meno?
“Uno dei più importanti fattori ma non l’unico. Se c’è una controversia al Tribunale di Milano è perché c’è una diversa valutazione dello stato degli impianti. ArcelorMittal ha dichiarato che c’è stato un passaggio fraudolento, che sono stati consegnati impianti che si sono rivelati pericolosi. Dal mio punto di vista la merce di scambio per questo accordo è stato lo scudo penale. Che è servito a risolvere i possibili dissidi che sarebbero sorti in sede tecnica una volta che si verificava lo stato effettivo degli impianti”.
Come esce la città da questa crisi?
“Puntare su unico polo industriale, ovvero l’acciaio, è sbagliato. La città ha bisogno di una bonifica dei terreni, di una decontaminazione dell’ambiente e di una riconversione del suo modello di sviluppo. Questa è l’opzione mia e di Peacelink. Taranto dovrebbe diventare laboratorio europeo della riconversione e della bonifica”.
E’ il cantiere Taranto di cui ha parlato il premier?
“Se Conte dovesse parlare di scudo penale tutto quello che ha detto avrebbe valore retorico. Non deve parlare più di scudo penale e non deve accettare nessun accordo al ribasso. Lo scudo penale è una cosa barbara, una legge che consente di violare la legge. Siamo pronti a rivolgerci anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo”.