Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip di Milano scrive che l’ex europarlamentare di Forza Italia Lara Comi “nonostante la giovane età” ha mostrato “nei fatti una non comune esperienza nel fare ricorso ai diversi, collaudati schemi criminosi volti a fornire una parvenza legale al pagamento di tangenti, alla sottrazione fraudolenta di risorse pubbliche e all’incameramento di finanziamenti illeciti”. Lara Comi è nata nel 1983, ha 36 anni, ed è stata eletta per la prima volta a Bruxelles nel 2009, quando di anni ne aveva solo 26. Alla quell’età la maggior parte dei giovani laureati italiani si affaccia al mondo del lavoro con aspettative e speranze, ma le prospettive certo non sono rosee.
Gli ultimi dati Eurostat restituiscono un’immagine deprimente: nel nostro Paese chi ha completato un ciclo di studi specialistico e ha tra i 20 e i 34 anni ha trovato un lavoro nel 62,8% dei casi, a fronte dell’85,5% della media europea. Stiamo parlando di un lavoro qualsiasi, non necessariamente legato agli studi effettuati, probabilmente precario e sottopagato. Lontano anni luce dal prestigio e dai 18mila euro lordi mensili che la giovane esponente forzista Comi ha percepito dai suoi 26 anni ininterrottamente fino al giugno 2019. Dieci anni.
Senza contare che ha anche avuto a disposizione 24.526 euro al mese, pagati dall’Europarlamento, per i collaboratori. Che dal 2009 al 2010 Comi ha utilizzato pure per assumere la madre come sua assistente. Nel 2017 gli organi di controllo le contestano, però, una violazione di specifiche norme europee che vietano ai parlamentari di reclutare parenti. In quel caso accettò di restituire ratealmente la somma impropriamente percepita per 126mila euro, ammettendo un errore di interpretazione normativa e la vicenda non ebbe conseguenze di carattere giudiziale.
Stavolta ci sono state, Comi è finita ai domiciliari e dagli elementi indiziari “emerge la peculiare abilità che l’indagata ha mostrato di aver acquisito nello sfruttare al meglio la sua rete di conoscenze al fine di trarre dal ruolo pubblico di cui era investita per espressione della volontà popolare il massimo vantaggio in termini economici”. La magistratura stabilirà eventuali responsabilità, non è questa la sede per esprimere giudizi in tal senso, ma se la corruzione, il malaffare, la cupidigia, l’avidità fanno sempre impressione, associati all’immagine di una ragazza così giovane e promettente, se possibile, fanno ancora più male.
Ora, se il principio di legalità attiene alla sfera giuridica ed è evidente che il ricorso a comportamenti criminosi integri un reato, esiste pure il principio di “opportunità” che attiene alla sfera dell’etica. Appare evidente che sia poco opportuno assumere la madre (con soldi pubblici…), soprattutto se con le cifre che si guadagnano si ha di che essere soddisfatti. Antico tema, quello del rapporto tra etica e politica ma sempre attuale. Venezia affonda, il Mose mai compiuto, saccheggiato dalla politica, è l’emblema degli sprechi, un monumento della corruzione ma non è certo l’unico.
È solo l’ultimo caso su cui i media hanno puntato (di nuovo) i riflettori per poi spegnerli nuovamente fra qualche giorno, come sempre accade. Cosa è successo, perché questi temi al di là dell’indignazione contingente ed effimera, non hanno più presa nell’opinione pubblica? Se il libro-inchiesta, uscito nel 2007, “La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili” firmato da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, fosse stato scritto oggi, avrebbe la stesso impatto sull’opinione pubblica che ebbe all’epoca? E se un’inchiesta come Mani Pulite fosse stata aperta oggi, avrebbe la stessa portata mediatica e susciterebbe la stessa indignazione che suscitò nel 1992? Probabilmente no. Ci si abitua a tutto? Forse.
Senza voler assegnare alla politica un ruolo troppo “alto” – non siamo così ingenui – e senza voler attribuire all’etica una funzione intrinsecamente connessa alla politica, come riteneva Aristotele, essendo la separazione tra vita pubblica e privata estranea all’uomo greco che è “integralmente” un “cittadino”, è sconcertante che si sia oggi persa totalmente la concezione di essere “cittadini”, cioè parte di una comunità, di chi concorre attivamente alla gestione della “cosa pubblica”, alla politica intesa come interesse di tutti (vedi intervista al sociologo Paolo De Nardis pubblicata su La Notizia in 13 novembre scorso). Il senso comune sembra aver pacificamente accettato che l’uomo politico possa comportarsi in modo difforme dalla morale comune, che la politica ubbidisca a un codice di regole differente, e in parte incompatibile con una condotta etica.