“Il pubblico, inteso come res publica dovrebbe essere sacrosanto, prezioso e importante. Non si ha più la percezione di essere cittadini parte di una comunità”. Spiega così il sociologo Paolo De Nardis, già preside della Facoltà di Sociologia dell’Università La Sapienza, il fatto che i temi della corruzione e della legalità in Italia non siano più percepiti come condizioni essenziali e prioritarie.
L’onestà come condizione o addirittura come precondizione per l’esercizio della politica non fa più presa nell’opinione pubblica e nell’elettorato?
“C’è stata una progressiva dissipazione del sentirsi e dell’essere parte di qualcosa, non ci si sente o ci si sente sempre meno cittadini, parte di una comunità, il concetto di ‘pubblico’ viene a cancellarsi sempre di più con una velocità atroce. Calando la partecipazione e venendo meno un’educazione a tutti i livelli, il saper parlare alla pancia di un corpo sociale così sfaldato, così in decomposizione come Matteo Salvini sa fare molto bene, incoraggia l’attitudine a questa frammentazione e a questo iper individualismo scatenato che di fatto rende premiante soltanto l’egoismo e la furbizia che poi si sostanziano nella svalutazione dell’altro, dell’alterità. Questo fa il paio con lo slogan ‘Prima gli italiani’, che non vuol dire creare una comunità sociale armoniosa ma, al contrario, porre le basi affinché ognuno pensi a se stesso e a come sopraffare l’altro”.
Anche a “farla franca”?
“Certo, siamo di fronte alla coltivazione di una politica della solitudine e dell’egotismo, prevale la cultura di un ego nel senso di egoismo. Tutto ciò un tempo veniva derubricato, dal punto di vista della sociologia del diritto penale e criminale, come devianza amministrativa – cioè non adeguare la propria condotta ai comandi normativi – ma anche come anomia, cioè mancanza di valori condivisi. Stiamo parlando di corruzione ai danni del pubblico, che dovrebbe essere sacrosanto, prezioso e importante. Non se ne ha più la percezione”.
Forse dopo Tangentopoli, in cui si erano riposte molte speranze nella lotta alla corruzione, c’è stata una sorta di disincanto, aspettative deluse?
“Tangentopoli ha scoperchiato, quello che già in qualche modo si intuiva, in maniera palese e roboante ma la popolazione all’epoca – nel 1992 – era abituata alla partecipazione, dopo 10 anni di reflusso. Di fatto c’era un’affezione alla cosa pubblica, alla politica intesa come interesse di tutti, come passione e senso di realizzazione di se stessi anche nel costruire qualcosa di condiviso, un progetto di vita comune. Nel pool di Mani Pulite si vide il punto di riferimento del riscatto morale e civile”.
Ma oggi più che al riscatto morale stiamo assistendo all’effetto bandwagon, cioè al salto sul carro del vincitore…
“E’ un salto che fotografa quella che è l’Italia di oggi. Il 34% del 60% di votanti è una grossa percentuale, rappresenta una parte consistente che vuol sentirsi dire quello che Salvini dice, non cerca motivazioni profonde: è un’abdicazione alla razionalità, all’analisi, allo studio. Ci si accontenta di una lettura superficiale, di essere trascinati dagli slogan”.
I media non sono più in grado di rappresentare la complessità?
“I mezzi di comunicazione di massa si adeguano alle ‘oscillazioni del gusto’. Oggi manca l’approfondimento, il trend è dare la notizia nel modo più superficiale possibile cadendo anche nella tentazione della fake news e i new media – penso anche ai social network – incoraggiano questa attitudine. I social banalizzano il discorso, hanno contribuito sicuramente a creare questo tipo di frammentazione”.