di Francesca Malandrucco
È arrivata ieri come una doccia fredda in una giornata caldissima la condanna a un anno e otto mesi di reclusione per omessa dichiarazione dei redditi da parte del Tribunale di Milano per Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Non solo, i due stilisti milanesi che hanno creato un impero nel mondo della moda dovranno versare ora una provvisionale di 500 mila euro all’Agenzia delle entrate, che si è costituita parte civile nel processo.
Dolce e Gabbana erano già stati assolti per lo stesso contenzioso fiscale due anni fa. La Cassazione, tuttavia, alla fine del 2011 aveva annullato quella sentenza, rimettendo tutte le carte del processo in tavola, compresa l’accusa di dichiarazione infedele dei redditi, reato dal quale ieri sono stati assolti perché il fatto non sussiste.
Ma facciamo un passo indietro. I fatti contestati dall’accusa, il pm Laura Pedio, risalgono al 2004-2005, anni molto tormentati per la famosa coppia del mondo della moda. Proprio nel 2005 i due stilisti, compagni sul lavoro, ma soprattutto nella vita, annunciano ufficialmente la fine della loro storia d’amore. E come si sa tutte le storie d’amore quando finiscono si portano dietro quel carico di dolore che impiega tempo prima di essere elaborato, a volte anni. Gli stessi anni che ha impiegato il processo prima di arrivare ad una nuova sentenza, esattamente sette, un intero ciclo di “saturno”. Sì perché in questo caso la storia privata e i fatti contestati dall’accusa hanno corso paralleli.
L’accusa
Secondo il pm del Tribunale di Milano, Dolce e Gabbana proprio negli anni della loro crisi di coppia (tra il 2004 e 2005) avrebbero costituito una società in Lussemburgo, la Gado, cui avrebbero ceduto i marchi del gruppo, al fine di ottenere risparmi fiscali. La società, però, sarebbe stata gestita di fatto in Italia, commettendo una presunta evasione fiscale da un miliardo di euro. Il Pm si è battuto per chiedere nuovamente una condanna a 2 anni e 6 mesi. Il giudice del Tribunale di Milano, tuttavia, ha riconosciuto un reato relativo a una parte dell’imponibile, 200 milioni di euro, e non ai rimanenti 800 milioni per cui i due stilisti sono stati assolti.
L’indagine che coinvolge i due stilisti, insieme ad altri cinque amministratori del colosso della moda, nasce nel 2007 in seguito ad una verifica fiscale.
Le tappe dell’inchiesta
Il 15 ottobre del 2010, la Procura di Milano chiude le indagini su Dolce e Gabbana e gli altri cinque amministratori del gruppo, tra cui il fratello di Domenico Dolce, accusati a vario titolo di truffa aggravata ai danni dello Stato e di dichiarazione infedele dei redditi. Viene contestata una presunta evasione di circa 1 miliardo di euro. Un mese più tardi, il 19 novembre 2010, Laura Pedio, chiede il rinvio a giudizio per Dolce e Gabbana. Il processo è veloce. Già il 1 aprile del 2011 arriva la sentenza di primo grado. Il gup di Milano, Simone Luerti, assolve i sette imputati perchè il fatto non sussiste. Secondo il gup, infatti, tutti i passaggi che portarono alla creazione della Gado furono compiuti alla luce del sole.
La sentenza però viene immediatamente impugnata in Cassazione dallo stesso pm. Quando tutto sembrava superato, come un doloroso ritorno delle pene d’amore non del tutto elaborate, il 23 novembre del 2011 arriva la pronuncia della Cassazione. La suprema corte annulla il proscioglimento dei due stilisti e degli altri imputati e rinvia gli atti al gup per una decisione.
Il Tribunale di Milano ha condannato anche gli altri imputati nel processo. Alfonso Dolce, come amministratore della società Lussemburghese Gado, ha avuto un anno e quattro mesi. Stessa condanna anche per Cristina Ruella, amministratrice pro tempore della Gado e membro del cda di Dolce & Gabbana, e per Giuseppe Minoni, direttore amministrativo e finanziario del gruppo. Condanna a un anno e otto mesi, invece, per il commercialista Luciano Patelli, mentre l’unica assolta è Antoine Noella. L’avvocato Massimo Dinoia ha già annunciato che impugnerà la sentenza in appello.