di Fabrizio Gentile
Una famiglia di contadini contro un colosso delle infrastrutture stradali. Una storia in cui i “piccoli” riescono ad avere ragione in giudizio, ma così facendo mandano in fumo l’opportunità di creare posti di lavoro, merce sempre più rara in un momento di crisi come quello che il paese sta vivendo. Il tutto con la complicità di una sentenza che congela, forse in modo definitivo, il progetto. La storia è presto detta: una contesa tra la famiglia storica di agricoltori, i Rinaldi, e la società Autostrade per l’Italia, capofila di un progetto di espansione dell’area di servizio autostradale di San Zenone Est, a cavallo tra il piacentino e il milanese. Un progetto ampio, questa volta sotto forma di negozi e altre attività commerciali private da posizionare sul terreno dei Rinaldi, confinante con l’area di servizio.
Un mostro di cemento
La Coldiretti Lombardia, naturalmente, canta vittoria. Il progetto dell’ampliamento, in discussione sin dal 2007, prevedeva all’origine la realizzazione di un albergo di 112 stanze (poi stralciato da Regione Lombardia per ragioni di incompatibilità paesaggistica) e di un fabbricato commerciale, in sostituzione dell’esistente, di 2.750 metri quadrati di superficie a fronte dei 700 metri quadrati attuali. Nell’area avrebbero dovuto essere insediati, oltre a un minimarket e al punto ristoro, quattro negozi. L’insediamento richiedeva poi la realizzazione di un parcheggio addetti di 64 posti, un collegamento viario esterno e un nuovo collettore fognario, per un totale di 20 mila metri quadrati di area agricola in esproprio.
Per i Rinaldi la cessione di parte dei propri terreni sarebbe avvenuta a prezzi notevolmente più bassi (quelli appunto di esproprio) rispetto ai normali valori di mercato. Alla fine è arrivata le decisione: “Niente espropri se i terreni servono per negozi e attività commerciali private, anche se si tratta di autostrade o grandi opere”. Questo ha sentenziato, tuttavia, dopo una lunga trafila burocratica e giudiziaria il Consiglio di Stato, per il quale “la costruzione di un edificio commerciale e delle opere a questo funzionali sono iniziative private e non di interesse pubblico”. Per i giudici non c’è stata altra considerazione. Per carità, il terreno è sdrucciolevole. Parliamo di interesse pubblico, bene inestimabile. Ma qualcuno ha fatto notare che avrebbe potuto essere di interesse pubblico anche creare qualche posto di lavoro.
Si salva un parcheggio
“L’unica concessione – si rammarica Coldiretti – è stata data per la costruzione di un parcheggio a servizio del traffico di automobilisti e camionisti che ogni giorno usano la A1”. Pubblica utilità dunque, sembra essere questo il discrimine della sentenza emessa dai giudici del Consiglio di Stato, che ora potrebbe dare forza ai tanti “piccoli” che volessero scontrarsi per difendere sì i loro diritti, con il concreto rischio però di bloccare opere e sviluppo. In questo caso a rimetterci le penne è stata Autostrade per l’Italia, tra i primi concessionari europei di costruzione e gestione di autostrade a pedaggio e dei connessi servizi alla mobilità. Un colosso la cui rete italiana, comprendendo anche le società collegate, si estende al momento per 3.095 chilometri. Nata all’inizio degli anni ’50 e al servizio di circa 5 milioni di viaggiatori ogni giorno, non fa mistero del suo essere oggi il maggior investitore privato del Paese: 21 miliardi di euro di investimento per il potenziamento e il miglioramento di 860 km di rete.
La rete di Atlantia
Al vertice istituzionale della struttura, dietro la quale sta Atlantia S.p.A. al 100% del capitale e il principale azionista Benetton (attraverso la holding finanziaria Edizione srl), troviamo l’Amministratore Delegato Giovanni Castellucci e il Presidente Fabio Cerchiai. Ramificatissimo il dedalo di partecipazioni societarie detenute dalla S.p.A., che spaziano dalle Autostrade Meridionali a Telepass S.P.A., passando per la rete autostradale lussemburghese e quella polacca.
Rimane l’esultanza degli agricoltori. “Ci siamo battuti come Davide contro Golia prima al Tar e poi, dopo aver vinto lì, anche al Consiglio di Stato – conclude Claudia Rinaldi, uno degli agricoltori coinvolti – ci è costato tempo, fatica e soldi, ma almeno abbiamo difeso un nostro diritto e ribadito un principio fondamentale di corretto utilizzo dello strumento dell’esproprio”.