di Stefano Sansonetti
Assalto alle coste siciliane, calabresi e pugliesi. Se fosse una considerazione legata all’estate non ci sarebbe niente di strano. In questo caso, però, ad affacciarsi in massa sono alcune società estere, in gran parte misteriose, che dell’Italia meridionale hanno messo nel mirino uno dei più remunerativi oggetti del desiderio: il petrolio. Apparentemente risultano slegate dai colossi dell’oro nero, che pure sono in ballo nelle stesse regioni con le loro società controllate. L’obiettivo, in realtà, è un altro: esplorare i fondali il più possibile per trovare qualche giacimento. E poi cercare di far soldi vendendo i diritti di sfruttamento. L’ultima novità in ordine di tempo è arrivata un mese fa. Al ministero dell’ambiente sono piovute due richieste di ricerca di idrocarburi. A farle pervenire è stata la Transunion Petroleum Italia, una srl nata nel 2009 con un capitale sociale piuttosto esiguo, ossia 120 mila euro. Cosa chiede esattamente al governo italiano la società? Semplice, vuole avere il permesso di cercare idrocarburi su aree che complessivamente superano i 1.100 chilometri quadrati.
Le istanze
Le richieste sono arrivate entrambe il 14 maggio al ministero dell’ambiente, oggi guidato da Andrea Orlando, per la cosiddetta Via, ovvero la Valutazione di impatto ambientale. Una riguarda l’esplorazione di un’area di 497 chilometri quadrati al largo di Gela (Cl), in Sicilia, a una distanza di circa 5 miglia nautiche dalla costa. L’altra ha come obiettivo un’area di 623 chilometri quadrati nel golfo di Taranto, anche in questo caso a cinque miglia dalle costa di Basilicata e Calabria, tra i comuni di Policoro (Mt) e Trebisacce (Cs). La richiesta, come da prassi, è stata depositata anche presso tutti i comuni e gli enti locali interessati. Come spesso avviene, di fronte a tanto attivismo la associazioni ambientaliste mugugnano. La Ola (Organizzazione lucana ambientalista) ha già fatto sentire la sua voce contro lo spettro di un’esplorazione al largo della Basilicata. Gli elementi critici sono sempre gli stessi: come si fa ad autorizzare una società che ha un capitale sociale così basso? In caso di danni ambientali con quali mezzi potrebbe intervenire per mettere una pezza? Ma soprattutto, in questi giorni in Sicilia e nel golfo di Taranto si chiedono chi ci sia dietro la Transunion Petroleum Italia. Ebbene, attraverso la Nautical Petroleum Plc, con sede a Londra, la società fa capo alla Cairn Energy. Quest’ultima, con quartier generale in Scozia, è una società attiva nello sviluppo ed esplorazione di gas e petrolio. Un gruppo importante, ma non certo un big del settore. E in Italia non è certo il solo.
Le altre
Qualche tempo fa è scoppiato il caso della San Leon Energy, società costituita a Lecce con appena 10 mila euro di capitale sociale, e controllata dall’ominimo gruppo dublinese. Nel 2010 ha messo nel mirino tre aree per complessivi mille metri quadrati al largo della coste di Sciacca (Ag). Anche in quel caso alcune associazioni ambientaliste hanno fatto le barricate, riuscendo a far impantanare alcune procedure. E che dire della Cygam Energy? Si tratta della controllata italiana dell’omonimo gruppo canadese che in Italia vanta già permessi di esplorazione nell’Adriatico, nel canale di Sicilia e nell’entroterra abruzzese. Ora, dagli ultimi bilanci approvati Transunion, San Leon e Cyram hanno fatturati pari a zero. L’ultimo documento contabile della San Leon, addirittura, risale al 2010. Ma se non guadagnano, che interesse hanno? Per alcuni ambientalisti e sindaci locali hanno l’obiettivo di esplorare il più possibile, facendosi assegnare il maggior numero di autorizzazioni. Così poi magari riescono a vendere i diritti di sfruttamento al colosso petrolifero di turno. Si tratta quindi di una sorta di intermediari del petrolio. Che però fanno correre qualche rischio all’ambiente. Le tecniche di esplorazione, basate sulla produzione di onde sismiche, possono nuocere gravemente a fauna e flora marina. Ma proprio per questo c’è la Valutazione d’impatto ambientale.