Sono nati in famiglie criminali, spesso hanno vissuto episodi terribili e quando i genitori, solitamente i papà, hanno deciso di pentirsi sono entrati nel sistema di protezione, che in un attimo li ha sradicati dalla loro terra, allontanandoli dalla casa in cui fino a quel momento avevano vissuto, da parenti e amici. Ma come se non bastasse nella nuova vita, oltre ad essere costretti sempre a nascondersi per ragioni di sicurezza, si trovano anche alle prese con mille difficoltà, da quelle iniziali per le cure mediche, per le stesse vaccinazioni, e per frequentare l’asilo nido a quelle, una volta diventati più grandi, di integrarsi con i compagni di scuola.
Un inferno quello in cui sono immersi i figli minori dei collaboratori di giustizia. Ben 1800 in Italia alla fine del 2018. Vittime così di troppi problemi fisici e soprattutto psicologici. Un dramma descritto nell’ultima relazione presentata alla Camera dei deputati sulle speciali misure di protezione per i collaboratori di giustizia, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, che porta ancora la firma dell’ormai ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Bambini e ragazzini condannati a crescere in modo complicato, per cui lo Stato ha avviato diversi progetti. Ma ancora non basta viste le tante difficoltà che permangono.
IL QUADRO. “Tra i minori sotto protezione – viene evidenziato nella relazione depositata a Montecitorio – prevalgono disturbi di adattamento e della sfera cognitivo-emotiva, principalmente connessi con le difficoltà scolastiche e le reazioni comportamentali di disadattamento”. Difficile del resto per loro, quando sono piccoli, sottoporsi alle stesse visite mediche, fare le vaccinazioni e frequentare un asilo nido. E dopo troppe le difficoltà nell’inserimento scolastico e sociale, con rapporti “quasi sempre condizionati in funzione delle necessità di tutela e spesso complicati dalla provenienza dei minori sotto protezione, cresciuti in ambienti criminali e subculture connotati da valori, stili di vita e caratteristiche del tutto singolari”. Un problema la stessa lingua. La maggior parte dei figli dei pentiti parla infatti quasi esclusivamente in dialetto e non è facile per loro comunicare nei nuovi contesti sociali in cui vengono inseriti.
LE RISPOSTE. Per quelle centinaia di bambini e bambine, 387 con meno di 5 anni, 517 tra i 6 e i 10, ben 623 tra gli 11 e i 15, l’età più problematica, e 329 tra i 16 e i 18, il Viminale da tempo sta provando a fare qualcosa. I minori vengono infatti seguiti e monitorati con l’obiettivo di prevenire ed eventualmente arginare possibili disagi. Il Ministero dell’interno parla di successi: “Tutti i minori sotto protezione frequentano le scuole dell’obbligo e una larghissima percentuale prosegue regolari corsi di istruzione”. Ancora: “Moltissimi ragazzi si dedicano ad attività sportive, interagiscono normalmente col gruppo dei pari e praticano attività culturali extrascolastiche”.
Ancora troppo poco visti i tanti problemi che permangono, come specificato e descritto dallo stesso Viminale. Difficile che quei ragazzini dopo una vita del genere possano diventare uomini e donne capaci di riscattarsi. Non bastano i “ritorni positivi in termini di recupero e reinserimento sociale dei minori” su cui batte il Ministero dell’interno nella relazione consegnata alle Camere. Una risposta a quei minori a cui ha rubato l’infanzia prima la criminalità organizzata e poi il sistema di protezione dovrà ora darla il ministro Luciana Lamorgese. Dopo aver affrontato il problema dei testimoni di giustizia, il ministro si dovrà occupare dei figli dei pentiti.