Se non fosse ancora chiaro, l’Italia non può più rimandare. Dopo i richiami dell’Ue che ci ha condannati a rivedere la norma sull’ergastolo ostativo perché lesiva dei diritti dell’uomo, oggi sarà la Corte Costituzionale a intervenire sulla questione. Già perché ai giudici si sono rivolti due distinti tribunali italiani per chiedere una valutazione sulla compatibilità tra la nostra Costituzione e l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che non consente l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati all’ergastolo ostativo, quest’ultimo previsto per una serie di reati gravi a partire da mafia e terrorismo, se non collaborano.
Una misura a lungo dibattuta di cui si era dovuto dotare lo Stato italiano dopo la strage di via Capaci del 1992 per combattere la mafia. Con esso, infatti, si puntava a spingere gli appartenenti alle cosche a fare il salto della barricata, trasformandosi in pentiti. Una misura di cui l’Italia ha fatto largo uso tanto che oggi si contano circa mille collaboratori di giustizia, entrati nel programma di protezione dei testimoni assieme ai loro cinque mila familiari. Ma se il tema sul pentimento era quello finito all’attenzione della Corte di Strasburgo, l’attenzione della Consulta è puntata su un tema diverso ma strettamente collegato: quello dei permessi premio. Infatti in due casi, quelli che hanno dato origine al procedimento, tali bonus per la buona condotta erano stati negati a due ergastolani, Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, perché non hanno mai espresso alcun pentimento.
Norma della cui costituzionalità dubitano fortemente tanto la Corte di Cassazione quanto il Tribunale di Sorveglianza di Perugia a cui erano stati presentati i ricorsi dei due detenuti. Codice alla mano, la questione è seria. Questo perché negare i permessi premio sarebbe contrario alla funzione rieducativa della pena, prevista dall’articolo 27 della Costituzione, e al principio di ragionevolezza, presente all’articolo 3. In particolare la Cassazione contesta che la collaborazione possa essere considerata “la prova esclusiva del ravvedimento”, come spiegato ieri dal giudice della Consulta Nicolò Zanon. A suo avviso, le ragioni di non collaborare “non necessariamente dipendono dalla volontà di non spezzare i legami con il gruppo criminale di origine, ma possono anche derivare dal timore per la propria o per l’incolumità dei propri familiari”.
Una tesi analoga a quella sostenuta dalla Corte europea. Dello stesso avviso anche gli avvocati della difesa, Valerio Vianello Accorretti, Mirna Raschi e Michele Passione, secondo cui: “Alla magistratura va restituita la possibilità di decidere”. A pensarla diversamente è l’Avvocatura dello Stato, rappresentata dai legali Marco Corsini e Maurizio Greco, che hanno rivolto un appello ai giudici chiedendo che “non si demolisca una norma che ha sempre funzionato” nella lotta alla mafia e al terrorismo e che “costituisce un incentivo alla collaborazione”.