Una situazione di stallo che assomiglia sempre di più ad un vicolo cieco. Dopo oltre due anni di commissariamento, Alitalia non decolla. Anzi, il rischio che la compagnia di bandiera finisca per restare definitivamente a terra, è sempre più concreto. Nonostante l’accanimento terapeutico che, tra un prestito ponte e l’altro, ai limiti dell’aiuto di Stato, dosi da cavallo di Cassa integrazione, è costato ai contribuenti circa 8,6 miliardi di euro negli ultimi vent’anni. Tutto inutile. Non è servita la privatizzazione nel 2008 con l’arrivo dei capitani coraggiosi di Cai (Compagnia aerea italiana) né l’ingresso di Etihad nel 2014. Fino all’anno più duro, il 2017, Alitalia rischia il fallimento, nonostante l’ingresso di Ethiad, e la bocciatura da parte del personale dell’intesa tra azienda e sindacati da 980 esuberi. Si arriva all’oggi: l’accordo con un partner industriale per la soluzione alla crisi (in corsa resta solo Delta) è lontano. Mentre i bilanci della compagnia sembrano il remake di Profondo rosso. Un film dell’orrore che nel 2018 ha registrato perdite nette per oltre 500 milioni (1,1 milioni al giorno). Quale che sia il destino di Alitalia, di certo i precedenti non depongono a favore del salvataggio. Le poche compagnie aeree nel mondo che sono riuscite a risollevarsi da una crisi aziendale ne sono uscite in tempi brevi. E senza ricorrere a continue iniezioni di denaro pubblico. Il contrario di quello che è successo e continua a succedere ad Alitalia.
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