Se le patatine fritte, non esattamente un taccasana per la salute, sono tassate al 4% mentre sulla connessione Internet, ormai bene di prima necessità a tutti gli effetti, si applica l’aliquota del 22, evidentemente, il problema esiste eccome. Lo dimostra del resto il dibattito sulla Manovra esploso negli ultimi giorni proprio intorno all’Iva. E che ci sia qualcosa da rivedere nell’impostazione delle aliquote dell’Imposta sul valore aggiunto sono ormai anche autorevoli esponenti del Governo ad ammetterlo.
Nonostante la Nota di aggiornamento al Def ne abbia sterilizzato l’aumento disinnescando le clausole di salvaguardia. Un’operazione costata cara. Anzi, carissima: un salasso da 23 miliardi di euro che rende la coperta della prossima Finanziaria – da circa 30 miliardi – decisamente corta. “Non è ragionevole che sulle patatine fritte ci sia l’imposta al 4 per cento. O che sia al 10 quella sui prodotti da collezione”, ammette, d’altra parte, il vice ministro M5S all’Economia, Laura Castelli, in un’intervista a La Stampa. Insomma, parlare di revisione delle aliquote e, quindi, di aumenti differenziati dell’Iva, non può più essere un tabù.
TANTO DA RIVALUTARE. Ma come è organizzato il sistema dell’Iva, l’imposta sui consumi che ogni italiano paga quando acquista un bene o un servizio? L’entità del tributo varia a seconda della tipologia del prodotto. Si parte da un’aliquota “minima” del 4% applicata sui prodotti di prima neccesità, come latte fresco, burro, formaggio, latticini, ortaggi, frutta, pane e altri generi alimentari. Ma anche su giornali e quotidiani, abitazioni non di lusso nel caso di acquisto della prima casa, apparecchi ortopedici e protesi, canone tv, prodotti ottici, come occhiali da vista e lenti a contatto.
Si passa poi ad un’aliquota “ridotta” del 10% sui prodotti e servizi del settore turistico (alberghi, pizzerie, hotel e ristoranti), interventi di recupero edilizio e su alcuni prodotti alimentari, come carne, pesce, uova latte conservato e yogurt. Non solo. Si paga l’Iva al 10% anche su spettacoli teatrali, gas metano per uso domestico, abitazioni non di lusso acquistate come seconda casa, oggetti di antiquariato, energia elettrica per uso domestico, medicinali e prodotti farmaceutici, compresi gli omeopatici, ristrutturazioni edilizie e raccolta rifiuti. Per tutto il resto si applica, invece, l’Iva “ordinaria”, quella più alta, al 22%.
Ma è proprio scorrendo il lungo elenco di beni e servizi tassati con l’aliquota massima che balzano agli occhi non poche stranezze. Rientra infatti nella lista una serie di beni che, se una volta si potevano considerare di lusso, oggi sono a tutti gli effetti di prima necessità. Non solo radio, televisione e lettori dvd, non certo roba da ricchi. Ma addirittura computer, tablet, cellulari, serrvizi per la telefonia e perfino la connessione ad Internet.
Insomma, una lunga lista che, nell’era del digitale in cui un numero sempre crescente di servizi, anche pubblici, è ormai accessibili anche (se non solo) online, definire anacronistica è un eufemismo. Stranezze che, in alcuni casi, rasentano il grottesco. Paghiamo il 22% di Iva sull’acquisto di uno smartphone o di un Pc, strumenti essenziali di lavoro quasi per chiunque, mentre lo Stato ci chiede solo il 10% per un oggetto d’antiquariato. Paradossale.