Ormai l’inchiesta sullo scandalo al Csm doveva essere conclusa da un pezzo. Ma per arrivare alla verità sugli incontri carbonari, i dossier e le trame di palazzo, ci vorrà altro tempo. Per l’esattezza sei mesi come da richiesta inviata dai pubblici ministeri di Perugia al gip che segue l’intricata vicenda che ha travolto la magistratura italiana. Una proroga a cui, però, si stanno opponendo i difensori delle parti in quanto, a parer loro, sarebbero già ampiamente scaduti i termini. Una storia di poltrone, incarichi e regali le cui dimensioni sono tutt’ora poco note tanto che ad occuparsi del caso c’è anche un secondo faldone nelle mani dei colleghi di Milano. Due fascicoli distinti a cui collaborano, in una rinnovata sinergia fatta su uno scambio di documenti, file e intercettazioni, le procura meneghina con quella umbra.
L’INDAGINE DEI VELENI. Insomma lo scandalo al Csm, con il passare del tempo, è diventata un’indagine a tutto tondo che ha come principali protagonisti il pubblico ministero ed ex presidente Anm Luca Palamara, accusato di corruzione, il collega Stefano Rocco Fava e il consigliere togato del Csm Luigi Spina, entrambi accusati di rivelazione di segreto e favoreggiamento, ma che è ben lontana dall’essere conclusa. E così con cadenza giornaliera, come se si stesse assistendo ad un romanzo a puntate, erano emersi dettagli che mettevano sempre più in difficoltà i nomi delle persone già coinvolte e che certificavano l’esistenza di quello che, senza timore di essere smentiti, appariva come un sistema di potere occulto.
Infatti tutto era partito dagli incontri carbonari tra l’ex presidente Anm, cinque consiglieri del Csm, l’ex ministro dem Luca Lotti e il deputato Cosimo Maria Ferri. Conversazioni in libertà in cui il gruppetto di magistrati e politici, come se fosse la cosa più normale del mondo, intrattenevano di notte per poter dare il via ad un domino di nomine gradite con cui riempire diversi uffici giudiziari. Peccato per loro che queste chiacchierate, la cui utilizzabilità a fini processuali è tutta da dimostrare, venivano regolarmente ascoltate dagli investigatori che avevano piazzato sul telefonino di Palamara un trojan, ossia una sorta di virus informatico capace di trasformare un comune smartphone in un potente strumento di sorveglianza.
TROJAN IN AZIONE. Grazie allo strumento di spionaggio, i militari avevano catturato numerosi audio sospetti che volta per volta avevano aggiunto tasselli e nomi all’inchiesta. Conversazioni private che, apparse sui media, avevano costretto consiglieri del Csm e perfino il procuratore generale Riccardo Fuzio a fare un passo indietro. Proprio quest’ultimo, infatti, era stato tirato in ballo in alcune intercettazioni e iscritto al registro degli indagati a Perugia per rivelazione di segreto d’ufficio. In particolare ad inguaiarlo era stato l’incontro con l’amico e collega Palamara, del 21 maggio scorso, in cui i due si erano trovati a dialogare dello stato dell’indagine a carico dell’ex presidente Anm.