Ci sono leader che seguono il loro popolo e altri che sanno guidarlo, soprattutto sulle strade pericolose. A meno di inciampi dell’ultima ora, Luigi Di Maio (con la spinta determinante di Beppe Grillo) e Nicola Zingaretti hanno deciso di iscriversi allo sparuto elenco di questi uomini politici coraggiosi, e domani daranno a Mattarella la possibilità di far nascere un nuovo Governo, con tutta probabilità guidato ancora da Giuseppe Conte. Per l’Italia è una buonissima notizia, per molti motivi. Il primo è che la prossima Manovra non la farà la Troika aumentandoci l’Iva, per non parlare del pericolo di mandare lo Stato in esercizio provvisorio. Matteo Salvini, in caso di elezioni anticipate, ha promesso che un “suo” Governo non avrebbe permesso tutto questo, ma una tale promessa può essere scritta giusto sulla sabbia del Papeete, vista la quantità di incognite che intercorrono nel voto, nella formazione di un Esecutivo e poi nel varo di una Legge finanziaria senza nessuna speranza di essere tollerata dall’Europa.
Bruxelles – si dirà – ha già fatto i suoi danni, ma fin quando ne condividiamo le regole non c’è nessuna ragionevole scappatoia, a parte le sparate della propaganda leghista. Altro ottimo motivo per guardare con fiducia alla nuova maggioranza è la discontinuità non tanto dagli obiettivi di solidarietà sociale e di spinta del lavoro, che troveranno una sintesi nell’accordo di programma, quanto nella stagnazione della politica italiana dentro invalicabili fossati, dai quali non possono entrare e uscire le buone idee e le potenzialità che vi risiedono, in nome dell’appartenenza a mondi non comunicanti. Questa visione dogmatica, figlia dell’era ideologica, ha bloccato la Seconda Repubblica in un perenne conflitto politico, sistematicamente al bivio dei referendum una volta su Berlusconi, un’altra su Renzi e la prossima volta – nei suoi desideri – su Salvini. Che piaccia o no, serviva l’anti politica di Grillo e dei Cinque Stelle per rimettere in carreggiata una politica che si era ridotta a bassa consorteria. Poi ci sono le cose da realizzare.
OBIETTIVI CONCRETI. Nel programma anticipato da Conte in Senato al momento del benservito a Salvini, poi nel cinque punti consegnati al segretario Pd dalla direzione del suo partito e infine nei dieci punti indicati da Di Maio direttamente al Presidente Mattarella, sono molti di più i punti di contatto che quelli distanti e comunque mai lontanissimi. Perché mai dunque 5S e Pd non dovevano provare a fare un Governo, visto il colpo basso di Salvini e l’effettiva possibilità di dare corpo agli impegni presi da ciascuno con il loro elettorato? Nel corto orizzonte è chiaro che a Zingaretti conveniva andare a votare e così diventare l’unico regista di un Partito democratico senza più interferenze renziane. Anche a Di Maio, pur in ribasso nei sondaggi, le urne avrebbero compattato le sue truppe, senza la fronda dei militanti oggi fortemente delusi da un’alleanza con quello che veniva definito il Partito di Bibbiano. In politica, come nella vita d’altronde, il difficile però non è fare la guerra, ma fare la pace, e così ottenere un benessere maggiore.
COLPO AL VECCHIO SISTEMA. Dunque, se da qui a domani non salterà fuori qualche nuovo avvelenatore dei pozzi, e lungo il cammino non prevarrà lo stesso opportunismo elettorale di Salvini, con il Governo che è alla porte Di Maio e i 5S realizzeranno altre riforme epocali (dopo il taglio dei vitalizi, il decreto dignità, il reddito di cittadinanza, lo spazzacorrotti, ecc.), mentre Zingaretti entrerà nella storia come il segretario che ha preso un partito balcanizzato e lo ha riportato in pochi mesi al Governo. Dall’altro lato, la Lega destinata a gonfiarsi nei sondaggi ancora per qualche mese poi comincerà a soffrire la mancanza di potere, con la conseguente fuga dal carro sul quale fino a qualche settimana fa tutti sembravano cercare posto. Un epilogo da cui Salvini difficilmente riuscirà a sottrarsi, finendo presto o tardi per pagare il conto di un errore politico che si può solo definire monumentale.