Alea iacta est. Non è Giulio Cesare, però, a trarre il dado, varcando la linea del Rubicone alla testa dell’esercito per marciare su Roma. Ma un più modesto Capitano padano, alla guida delle armate leghiste, ad aprire la crisi di Governo per prendersi quella stessa Roma che un tempo i suoi predecessori definivano “ladrona” (Bossi dixit). Stracciando il contratto che lo legava ai Cinque Stelle e sfruttando il casus belli del voto sul Tav, Salvini ha rotto gli indugi.
Un pretesto, evidentemente, quello delle mozioni sulla Torino-Lione, che serviva al leader del Carroccio per motivare al suo elettorato la scelta – e la responsabilità – di staccare la spina ad uno dei governi con il più alto indice di gradimento della storia repubblicana. Un pretesto, peraltro, illogico dal momento che, con il via libera del Senato all’inutile e dispendioso buco nelle Alpi confezionato con il decisivo contributo delle opposizioni (a loro insaputa), Salvini era uscito vincitore su tutta la linea.
PASSO FALSO. Anche per questo è più che legittimo il sospetto che, in realtà, la decisione di porre fine all’esperienza del Governo Conte sia stata accuratamente meditata e alimentata con un’excalation di attacchi all’alleato culminati nello strappo di Sabaudia. Dove, dopo giorni di stillicidio su un possibile rimpasto (“Si potrebbero sostituire alcuni ministri con altri esponenti dei Cinque Stelle che hanno posizioni più ragionevoli”, andava ripetendo ancora ieri mattina il capogruppo del Carroccio alla Camera, Molinari), con Toninelli, Trenta e Costa cannoneggiati a giorni alterni dalle truppe leghiste, Salvini ha riscritto il contratto di Governo, dettando al Movimento Cinque Stelle, condizioni inaccettabili. Invocando la separazione delle carriere dei magistrati e punizioni per le toghe che sbagliano; evocando il superamento dell’abuso d’ufficio e incensando trivelle e inceneritori.
Ma non è tutto. Perché dal palco di Sabaudia, per la prima volta, Salvini ha fissato una scadenza dell’ultimatum: “Lunedì saremo a Roma per fare qualche chiacchierata… Ci siamo capiti”. Data non casuale: per sfruttare l’ultima finestra elettorale di ottobre, prima dell’apertura della sessione di bilancio e, soprattutto, per disinnescare l’approvazione del taglio dei parlamentari (in Aula a settembre), che tra eventuale referendum approvativo e modifica dei collegi elettorali, potrebbe richiuderla per oltre un anno, la crisi andava aperta ora o mai più. Poi la decisione di accelerare ancora, varcando il Rubicone della crisi di Governo già ieri sera. Perché?
La situazione è precipitata dopo il colloquio al Quirinale tra il premier Conte e il presidente Mattarella. Quando Salvini ha capito di aver sbagliato i conti. Contava di aprire una crisi extraparlamentare, con le dimissioni del presidente del Consiglio rassegnate nelle mani del Capo dello Stato, che avrebbe lasciato l’attuale Governo in carica per il disbrigo degli affari correnti fino alle prossime elezioni. Fatto non secondario: Salvini sarebbe rimasto ministro dell’Interno gestendo, peraltro, dal Viminale, l’organizzazione della macchina elettorale. Si è ritrovato, invece, di fronte lo scenario peggiore. Quello di una crisi parlamentare, con Conte che si presenta in Parlamento per farsi sfiduciare, costringendo la Lega a staccare la spina in diretta televisiva all’Esecutivo assumendosene la responsabilità davanti al Paese.
Poi la regia passerebbe a Mattarella. Che a quel punto, avviate le consultazioni per verificare l’esistenza di una maggioranza alternativa (molto improbabile, ma matematicamente non impossibile: le vie dei peones sono infinite) potrebbe comunque optare per la formazione di un Governo tecnico con l’unico scopo di traghettare il Paese alle elezioni. Scenario tutt’altro che improbabile. Sono gli stessi Cinque Stelle a non escluderlo: “Chiunque oggi aprisse una crisi di Governo, l’8 agosto, si assumerebbe la responsabilità di riportare in Italia un Governo tecnico”. Salvini l’ha capito troppo tardi, così è stato costretto suo malgrado ad anticipare i tempi e a chiedere egli stesso la parlamentarizzazione della crisi. Restando con il cerino in mano. Era stato del resto lo stesso Conte, in occasione dell’informativa al Senato sul Russia-gate, ad assumersi l’impegno di tornare nella stessa Aula che gli aveva accordato la fiducia, qualora quella fiducia fosse venuta meno. E gli impegni, i veri generali, li rispettano. Sempre. Ultima lezione al capitano che ambisce a prenderne il posto, tradendo la parola data agli italiani quando firmò il contratto di Governo.