Bombe, missili, caccia, navi e carri armati. C’è anche questo tra le esportazioni italiane di armi nel 2018. Armi vendute a una vasta platea di acquirenti che per il 70% è composta da Paesi extra Ue o extra Nato, con tutto quello che ne consegue rispetto alla tutela dei diritti umani. È questo il dato, sconcertante, che emerge dalla relazione governativa sull’export italiano di armamenti, consegnata con un mese di ritardo rispetto a quanto previsto dalla legge e analizzata nel dettaglio dalla Rete italiana per il Disarmo.
Per la prima volta dopo anni, le autorizzazioni all’esportazione scendono sotto i 10 miliardi, attestandosi sui 5,2 miliardi di euro. Il calo rispetto all’anno precedente è del 53% mentre la flessione rispetto al 2016 raggiunge addirittura il 66%. C’è da rallegrarsi? Niente affatto. L’impennata degli scorsi anni, come ricorda ancora la Rete per il disarmo, era dovuta a mega-commesse come quelle recenti per gli aerei al Kuwait e le navi al Qatar. Ma se si prendono le sole licenze individuali, si scopre ad esempio che negli ultimi quattro anni (2015-2018) sono stati autorizzati trasferimenti di armi per 36,81 miliardi, cioè oltre 2 volte e mezzo i 14,23 miliardi autorizzati nei quattro anni precedenti (2011-2014).
Non è un caso che nel 2018 sono stati oltre 80 i Paesi del mondo destinatari di licenze per armamenti italiani. Ma c’è un altro dato su cui dover riflettere. I dati sulle licenze concesse, infatti, inquadrano solamente gli affari futuri e potenziali dell’industria militare italiana. Ed ecco allora che determinante risulta vedere a quanto ammonta il fatturato complessivo effettivo: nel 2018 parliamo di ben 2,5 miliardi di euro, con una flessione di appena il 12%. Per questo motivo, sottolinea la Rete per il disarmo, “il sensibile calo delle autorizzazioni non deve far pensare ad una crisi o rallentamento nella esportazione di armi italiane poiché le aziende stanno comunque incamerando contratti e possibili commesse per un valore doppio rispetto alla effettiva capacità esportativa”.
A questo punto resta la domanda: chi sono i nostri “clienti”? Le esportazioni autorizzate nel 2018 vedono ai primi posti Paesi problematici come Qatar (1,9 miliardi), Pakistan (682), Turchia (362) ed Emirati Arabi (220). Per quanto riguarda, invece, le armi effettivamente vendute, secondo i dati raccolti ancora dalla Rete per il disarmo, troviamo Germania (278 milioni), Regno Unito (221 milioni), Francia (152 milioni) e Usa (133 milioni). Ma non mancano Stati dove i diritti umani vengono puntualmente calpestati come Pakistan (207 milioni), Turchia (162 milioni), Arabia Saudita (108 milioni), Emirati Arabi Uniti (80 milioni) ed Egitto (31 milioni).
Non solo: dalla relazione non figurano provvedimenti relativi a sospensioni, revoche o dinieghi per esportazioni di armamenti verso l’Arabia Saudita nonostante i tanti annunci del governo Conte. Sono invece riportate nell’allegato del ministero degli Esteri, diretto da Enzo Moavero Milanesi, 11 autorizzazioni per l’Arabia Saudita del valore totale di 13,3 milioni di euro e nell’allegato dell’Agenzia delle Dogane 816 esportazioni effettuate nel 2018 per un valore di 108 milioni. “Il governo Conte – commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio Opal di Brescia, a La Notizia – deve rispondere ad una semplice domanda: è davvero intenzionato a sospendere l’invio delle micidiali bombe aeree all’Arabia Saudita o, come i precedenti governi Renzi e Gentiloni, sta solo cercando ogni scappatoia burocratica per evitare di prendere una decisione?”.
Una domanda più che legittima, considerando che, ricorda ancora Beretta, “il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nella conferenza stampa del 28 dicembre 2018 ha affermato che il governo italiano è contrario alla vendita di armi all’Arabia Saudita e che si tratta solamente di formalizzare questa posizione: finora, però, non risulta alcun atto di sospensione né di revoca delle forniture di armamenti”. Eppure basterebbe poco: “La normativa italiana e il Trattato dell’Onu sul commercio di armi (ATT) offrono gli strumenti giuridici e legali per sospendere queste forniture. Non è necessario modificare la legge 185 del 1990. Occorre invece un atto politico del governo ed un decreto della Farnesina”. Che per ora, tuttavia, tarda ad arrivare.
C’è un altro aspetto di cui non si può non tener conto nel momento in cui si parla di affari legati al mondo degli armamenti. Parliamo delle cosiddette “banche armate”, quelle cioè attraverso le quali passano le maggiori transazioni finanziarie legate all’esportazioni di armi. Sul punto la relazione – come ogni anno – non spicca in fatto di trasparenza, considerando che, ad esempio, risultano transazioni bancarie attinenti ad operazioni di esportazione di armamenti per un valore complessivo di 4.855.463.428 euro di “importi segnalati” e di 3.213.552.154 per “importi accessori segnalati”.
Quale sia la differenza, però, non è chiarito. Le maggiori operazioni per esportazioni di sistemi militari sono state svolte da tre gruppi bancari: UniCredit che riporta “importi segnalati” per 1,3 miliardi di euro, cui vanno aggiunti gli “importi segnalati” da UniCredit Factoring del valore di 568 milioni. Al secondo posto troviamo la Deutsche Bank che riporta “importi segnalati” per 643 milioni di euro e Intesa Sanpaolo che riporta “importi segnalati” per 550 milioni. Spicca, esattamente come l’anno scorso, la “piccola” Banca Valsabbina, che anche quest’anno risulta banca d’appoggio per l’esportazione di bombe da parte di Rwm Italia all’Arabia Saudita. Dalla relazione emergono a riguardo “importi segnalati” per 86.085.292 euro e “importi accessori segnalati” per 7.840.232 euro, per un totale di quasi 94 milioni di euro. Come denuncia ancora Rete per il disarmo, una rilevante operazione da 25 milioni di “importi segnalati” è, non a caso, riconducibile “alla fornitura di bombe 19.675 aeree della classe MK 80 da parte di Rwm Italia all’Arabia Saudita”.