di Gaetano Pedullà
Un Paese iniquo. Rapace con pensionati e lavoratori dipendenti, affamati e tartassati. Miope con le aziende, obbligate a non assumere perché fisco e contributi costano più degli stipendi. E con la testa girata altrove di fronte a privilegi e rendite di posizione. Questo giornale, con le nostre inchieste, spesso scomode, lo racconta ogni giorno. E oggi ve ne diamo un’altra prova, con il caso di una delle più grandi multinazionali, la Coca Cola, con diversi stabilimenti anche in Italia, dove fa giustamente affari d’oro ma poi acquisisce la sua materia prima – cioè l’acqua – a un costo irrisorio, in proporzione persino più basso di quanto può pagare per le forniture idriche un comune cittadino. Secondo una stima sommaria, se le Regioni – che hanno competenza sulle sorgenti – adeguassero appena appena i canoni, l’erario potrebbe incassare comodamente una cifra vicina ai 500 milioni di euro. E invece che accade? Nulla. Al povero artigiano levano pure il sangue. Alla multinazionale neppure una goccia di Coca Cola. Ieri la Confindustria ha denunciato: dall’inizio della crisi il Paese ha distrutto il 15% del potenziale manifatturiero. Servono soldi per incentivare l’occupazione, abbassare le tasse e far ripartire i consumi. Ma se si continua a ignorare la montagna di privilegi accumulati negli anni da ogni genere di casta – perché non c’è solo la classe dirigente politica, ma le professioni, i sindacati, le corporazioni, le banche, per molti aspetti la grande industria – allora pagheranno sempre gli stessi. E la ripresa resterà una chimera. E’ chiaro che nel Paese delle Lobby toccare certi interessi, tagliare la spesa improduttiva e riequilibrare più saggiamente il carico fiscale non è facile. Ma questo è un onere che ha chi governa. A meno di non lasciare in vuoti slogan le promesse di equità e le speranze di una generazione senza lavoro.