Le nuove norme in materia di permessi umanitari contenute nel Decreto sicurezza, entrato in vigore il 5 ottobre scorso, devono essere applicate a tutti i giudizi in corso. E’ la posizione espressa dalla prima sezione civile della Cassazione con tre nuove ordinanze interlocutorie, depositate oggi, con le quali si dà un’interpretazione giurisprudenziale opposta rispetto a quella enunciata dalla stessa sezione con una sentenza del 19 febbraio, secondo cui le norme contenute nella legge Salvini non sono retroattive.
Dovranno perciò essere le sezioni unite civili della Cassazione a chiarire se le norme contenute nel decreto sicurezza siano o no applicabili ai giudizi già in corso prima della loro entrata in vigore. Secondo la prima sezione civile della Suprema Corte, infatti, non è condivisibile il precedente orientamento che escludeva, per l’appunto, la “retroattività” della norma. Con le tre ordinanze depositate oggi, i giudici hanno trasmesso gli atti al primo presidente Giovanni Mammone per “l’eventuale assegnazione” alle sezioni unite, il massimo consesso della Cassazione. Quelle trattate, osserva la prima sezione civile, “sono questioni di massima di particolare importanza”, per cui “è necessario investire” il primo presidente che ne valuterà l’invio alle sezioni unite.
All’attenzione del presidente Mammone il collegio rimette anche un’ulteriore questione, da dirimere “nel caso in cui si reputassero ancora in vigore i previgenti parametri normativi della protezione per motivi umanitari”. Con una sentenza del 2018, infatti, la Cassazione ha interpretato le norme contenute nel Testo unico dell’immigrazione nel senso che “il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari può essere riconosciuto al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia” che “deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.
Tale orientamento, si sottolinea nelle ordinanze odierne, “si espone a dubbi e incertezze interpretative che non favoriscono un’applicazione coerente e uniforme dell’istituto nella pratica giurisprudenziale, con l’effetto di alimentare di fatto il contenzioso, in particolare con riguardo ai profili dell’integrazione o inserimento sociale nel territorio nazionale e della caratterizzazione del rischio in caso di rimpatrio nel Paese di origine”. Non va poi “sottovalutato”, scrivono ancora i giudici della Cassazione, che lo strumento utilizzato del decreto “è segno dell’intenzione del legislatore di intervenire immediatamente nelle fattispecie in corso” e, quindi, “escludendo l’applicazione della nuova legge a tutti coloro che abbiano solo avviato un procedimento per il riconoscimento della protezione umanitaria sarebbe impedito alla legge di raggiungere i suoi effetti”.
Secondo la prima sezione civile della Suprema Corte, infine, “è arduo negare che la nuova legge contenga una norma di diritto intertemporale”, come l’articolo in cui si “indica chiaramente che alle situazioni pendenti, ove positivamente vagliate in sede amministrativa, si applichi il meccanismo di conversione del permesso umanitario nel permesso ‘in casi speciali’: da qui “è ovvio dedurne che il legislatore ha inteso escludere che alle situazioni pendenti siano da applicare le norme ormai abrogate”.