L’ultimo test prima delle elezioni europee di maggio. Domani, domenica 24 marzo, i cittadini della Basilicata saranno chiamati a eleggere il nuovo presidente della giunta regionale. Le elezioni arrivano a ben 5 anni e 4 mesi di distanza dalle precedenti, dopo l’arresto del presidente uscente Marcello Pittella (Pd) il 6 luglio 2018 e le sue dimissioni il 24 gennaio di quest’anno. Una partita dagli esiti complicati. Probabile che la Basilicata segua “l’esempio” di Abruzzo e Sardegna sulla scia dell’exploit del centrodestra sulle ali dell’entusiasmo leghista.
C’è da dire, però, che il Movimento cinque stelle alle ultime politiche ha collezionato un risultato clamoroso arrivando a superare il 44% in regione (uno dei migliori risultati su scala nazionale). Ultimo tassello per provare a leggere quanto potrebbe accadere domani è il peso “storico” del centrosinistra. Dal 1995 ad oggi si sono susseguiti solo presidenti di Regione del centrosinistra: Angelo Raffaele Dinardo, Filippo Bubbico, Vito De Filippo, Marcello Pittella che, per inciso, nonostante le sue dimissioni, ha deciso di ricandidarsi come capogruppo di una lista civica presente nella coalizione che sostiene il candidato presidente, Carlo Trerotola. Vedremo se alla fine sarà lui o l’ex finanziere in pensione Vito Bardi (centrodestra) o Antonio Mattia (M5S) o Valerio Tremmutoli (Basilicata Possibile) a vincere la corsa alle urne.
Quel che è certo è che si arriva alle urne consapevoli di una “bella” eredità che pesa sulle spalle dei lucani: due giorni fa, infatti, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia perché, nonostante solleciti e promesse, il nostro Paese non è stato in grado di chiudere o mettere in regola la bellezza di 44 discariche. Ebbene: di queste ben 23 si trovano in Basilicata. Un record (negativo) clamoroso e che la dice lunga sulle errate politiche ambientali seguite tra governo centrale e amministrazione regionale nel corso degli anni. Non è un caso che sul fronte centrosinistra nessuno abbia commentato questo dato che, di fatto, è passato in sordina.
Ma i numeri parlano chiaro. E ancora di più parla chiaro la storia che ha portato a questa sentenza. La procedura d’infrazione che ha portato alla nuova condanna era stata aperta nel 2012, con l’invio di una lettera di diffida nella quale la Commissione contestava al nostro Paese la presenza di 102 discariche fuori norma comunitaria. Mentre gli Stati membri avrebbero dovuto, entro il 16 luglio 2019, chiudere o adeguare le discariche, l’Italia non l’aveva ancora fatto. Dopo una lunga “trattativa”, al nostro Paese è stato concesso un termine più lungo, ossia il 19 ottobre 2015. Due anni dopo, e siamo nel 2017, la Commissione europea ha proposto dinanzi alla Corte di giustizia un ricorso per inadempimento contro il nostro Paese.
Tre le contestazioni principali: 31 discariche su 44 non erano state chiuse entro il 19 ottobre 2015 e, alla data della proposizione del ricorso non erano ancora state adeguate; i lavori per rendere conformi alla direttiva altre 7 discariche erano stati completati nel corso del 2017 e del 2018 (fuori tempo massimo); infine, per altre 6 discariche, la Commissione non avrebbe avuto modo di consultare i documenti che provavano il completamento dei lavori e la conformità alla direttiva. Da qui la sentenza emessa in questi giorni. Considerando che la procedura è stata aperta nel 2012 in sette anni, le giunte di centrosinistra che si sono susseguite avrebbero potuto impegnarsi per una partita così delicata. Ma si vede che quanto fatto non è stato abbastanza.