No, non è stato un fulmine a ciel sereno quello che ha coinvolto l’impianto di trattamento rifiuti al Salario. Polemiche, proteste e ben due inchieste, entrambe finite sul tavolo del pubblico ministero Carlo Villani, avevano portato la struttura al centro dell’attenzione dei media e della politica.
Il primo fascicolo ad essere aperto, tutt’ora senza persone iscritte nel registro degli indagati, era stato quello relativo ai miasmi, ossia le esalazioni tossiche conseguenti ai fenomeni di putrefazione che incessantemente vengono sprigionate dal Tmb Salario. Fortissimi ed insopportabili odori che hanno spinto i cittadini, organizzati in comitati, a lunghi anni di proteste e manifestazioni.
Successivamente l’attenzione dei magistrati veniva convogliata in un secondo fascicolo, anch’esso senza indagati, relativo al presunto malfunzionamento dell’impianto e per una cattiva lavorazione di parte dei rifiuti che poi, in stato di putrescenza, venivano spediti ad altri impianti sparsi per l’Italia. Tesi queste che trovavano conforto anche nella relazione dell’Arpa Lazio, anch’essa confluita in quest’ultimo fascicolo d’indagine, presentata il 16 novembre scorso alla conferenza dei servizi in Regione chiamata a valutare la proroga all’autorizzazione integrata ambientale che sarebbe dovuta avvenire, per un curioso caso del destino, proprio in questi giorni.
Secondo i tecnici dell’Arpa, le irregolarità sarebbero molteplici: dalla presunta non corretta codificazione dei rifiuti, al fatto che quelli prodotti dall’impiano presenterebbero “ancora caratteristiche di putrescibilità e che pertanto non possono essere identificati dal Gestore quale frazione oroganica stabilizzata”. Insomma un grattacapo, quello dell’immondizia capitolina, spesso ignorato dalle precedenti amministrazioni che così lo hanno reso cronico, a cui la sindaca Virginia Raggi intende trovare una soluzione nel più breve tempo possibile.