Mentre a Palazzo Madama prosegue l’esame del disegno di legge costituzionale M5S-Lega per la riduzione del numero dei parlamentari da 945 a 600, sempre in commissione Affari costituzionali, ma stavolta a Montecitorio, entra nel vivo, con una serie di audizioni che impegnerà l’organismo della Camera per tutta la settimana, anche la discussione del ddl della maggioranza giallo-verde per modificare l’articolo 71 della Costituzione. Quello che disciplina le leggi di iniziativa popolare introducendo nell’ordinamento italiano lo strumento del referendum propositivo. Si tratta di fatto del secondo tassello delle riforme istituzionali lanciate il 3 ottobre scorso dalle due forze di Governo.
Ma cosa prevede nello specifico il ddl a prima firma dei due capigruppo dei Cinque Stelle e della Lega, Francesco D’Uva e Riccardo Molinari? L’obiettivo dichiarato è quello di “potenziare e rendere effettivi gli strumenti di democrazia diretta” per superare “il senso di sfiducia nelle istituzioni rappresentative” che, spiega la relazione introduttiva del provvedimento, si traduce non solo “in disimpegno e disaffezione verso la vita politica” ma anche nella richiesta di maggior “coinvolgimento da parte dei cittadini”.
Il modello di riferimento è quello della Svizzera, nel quale i referendum svolgono un ruolo centrale, ma con delle differenze sostanziali. Mentre, infatti, nella Repubblica elvetica, “l’iniziativa popolare ha sempre la forma di una revisione costituzionale”, chiariscono i proponenti, nel ddl M5S-Lega “è limitata a proposte di legge ordinaria”. L’attuale formulazione dell’articolo 71 stabilisce che “il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”.
Una norma che, però, è rimasta sistematicamente inapplicata nel corso della storia parlamentare repubblicana. “Molti progetti di legge d’iniziativa popolare non sono stati nemmeno esaminati dalle Camere e solo in minima parte tali proposte sono divenute leggi”, rileva la relazione. Per invertire la rotta, il ddl M5S-Lega, aggiunge alcuni commi all’articolo 71. Stabilendo innanzitutto che una proposta di iniziativa popolare, firmata da almeno 500mila elettori, “debba essere esaminata dalle Camere e approvata entro un termine” di 18 mesi. Oltre in quale, in caso di inerzia del Parlamento, “è indetto un referendum”, salvo che i promotori ci rinunzino e a condizione che la Corte costituzionale lo giudichi ammissibile.
Un giudizio, quello della Consulta (che può essere anticipato una volta raccolte le 100mila firme), esteso “non solo a una verifica della compatibilità della proposta con i diritti e i princìpi fondamentali” fissati dalla Costituzione, ma anche “con gli obblighi europei e internazionali”. L’ammissibilità è esclusa, anche “quando la proposta d’iniziativa popolare non provveda alla relativa copertura finanziaria”. La proposta sottoposta a referendum è approvata “se ottiene la maggioranza dei voti validi”. La consultazione non è soggetta, quindi, a quorum a differenza del referendum abrogativo che richiede, per essere valido, la partecipazione al voto della metà più uno degli aventi diritto. E se le Camere dovessero approvare un testo diverso da quello promosso dai cittadini? Il referendum sarà indetto su entrambe le proposte e, tra le due, diventerà legge quella che avrà ottenuto più voti.