Una “vendetta” contro Bankitalia per aver sollevato critiche al Def del Governo o piuttosto un vecchio cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle proposto in tempi non sospetti? Domanda legittima dopo il duro botta e risposta tra l’ex deputato M5S, Alessandro Di Battista, e il direttore di Radio Capital, Massimo Giannini, andato in scena nell’ultima puntata di Di Martedì su La7. “Io da cinque anni martello sulla necessità di riformare la governance di Bankitalia. Reputo che Banikitalia sia in conflitto d’interesse con le banche private che dovrebbe controllare e che, di fatto, la controllano”, ha tuonato in collegamento dal Messico, Di Battista. “So benissimo che Di Battista per cinque anni… ha insistito molto sul tema della riforma della governance di Bankitalia… Però ribadirlo proprio oggi mi dà la sensazione netta… che si tratti di una vendetta e di rimettere in riga una istituzione che in riga non ci vuole stare”, gli ha replicato Giannini.
QUOTE PUBBLICHE – Si può legittimamente obiettare, come ha fatto l’ex conduttore di Ballarò, sull’opportunità di rilanciare il tema proprio nel mezzo di uno scontro in corso tra Governo e Palazzo Koch. Ma, allo stesso modo, non si può mettere in discussione un fatto: nuovo sistema di governance e nazionalizzazione di Bankitalia sono i capisaldi della riforma messa a punto nella passata legislatura dal Movimento 5 Stelle. Una rivoluzione avviata con sei proposte illustrate già nell’ottobre 2015 e poi tradotte, nel maggio 2016, in un progetto di riforma organico a prima firma dell’attuale sottosegretario all’Economia, Alessio Villarosa. Al quale, evidentemente, Di Battista si riferiva quando, martedì scorso, ne ha rilanciato l’urgenza. Ma cosa prevede nel dettaglio la vecchia proposta di legge dei Cinque Stelle? Il testo trae spunto da uno studio della Banca centrale svedese del 2008, dal titolo Governing the governors: A clinical study of Central Banks. E dal quale emerge che “il 70% delle banche centrali operanti nel mondo sono per il 100% di proprietà pubblica” mentre “solo il 6%” presenta un assetto proprietario nel quale lo Stato detiene meno del 50%”. In questo contesto, secondo i 5 Stelle, Banca d’Italia rappresenta una vera e propria “anomalia” nel panorama internazionale. Non a caso la riforma messa a punto da Villarosa due anni fa, prevede che le quote di Bankitalia in mano agli istituti di credito privati vengano acquisite dal ministero dell’Economia e che non possano essere cedute a soggetti diversi dalle amministrazioni pubbliche. Ai soci privati, entro un anno, andrà liquidata una somma pari al valore nominale delle quote del 1936 (156 mila euro) oltre ai circa 900 milioni che le banche hanno versato all’erario per effetto della rivalutazione disposta (illegittimamente sencondo i 5 Stelle) con il decreto Imu-Bankitalia. Somme finanziate attingendo alle riserve della banca centrale senza contraccolpi per il suo bilancio. Che, al contrario, stando alla proposta del Movimento, sarà reso ancora più solido attraverso il ristorno della rivalutazione delle quote a 7,5 miliardi di euro (la valutazione del decreto Imu-Bankitalia). Effetto diretto della nazionalizzazione sarà, inoltre, lo stop alla distribuzione dei dividendi, prevista nella misura massima del 6% del capitale. E che ha fruttato agli azionisti 380 milioni nel 2013 e altri 340 nel 2014. Somme che, grazie alla riforma, potranno essere utilizzate per altri scopi.
CAMBIO AL VERTICE – Tutto da rifare anche per la governance. La riforma, rimasta per ora solo sulla carta, stabilisce che il governatore di Bankitalia sia eletto dal Parlamento in seduta comune, con la stessa procedura prevista per i giudici costituzionali (maggioranza dei due terzi nei primi due scrutini e dei tre quinti dal terzo in poi). Per un mandato di 7 anni (contro i 6 attuali) non rinnovabile. Viene inoltre istituita una Commissione parlamentare bicamerale di Vigilanza sulla banca centrale, simile a quella che oggi controlla Cassa depositi e prestiti, alla quale è demandata l’elezione di 12 dei 13 membri del Consiglio superiore di Banca d’Italia. Il tredicesimo è designato, invece, dalla Conferenza Stato-Regioni. Ciascun componente resta in carica 5 anni e potrà essere rinnovato per un solo mandato. Il possesso dei requisiti di onorabilità, professionalità e competenza è condizione di eleggibilità. Il Consiglio superiore continuerà a nominare i componenti del Direttorio, la cui permanenza in carica passa da 6 a 5 anni con la possibilità di rinnovo per un solo mandato. Insomma, una rivoluzione. Resta da capire se sarà riproposta anche in questa legislatura.