di Vittorio Pezzuto
Il ministro Enrico Giovannini è un uomo fortunato. Presta la sua attività in un Paese che non ha mai fatto del merito una bandiera credibile ed è riuscito finora a sopravvivere a una sequela di flop che per altri sarebbero stati esiziali.
Nel luglio 2009 è arrivato alla presidenza dell’Istat per volontà del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, che cercava una persona di fiducia al vertice dell’Istituto che certifica i dati di contabilità nazionale. Ha così vinto la concorrenza dell’economista Fiorella Kostoris, che Renato Brunetta aveva sponsorizzato in qualità di ministro vigilante. Da allora tra lui e quest’ultimo i rapporti non sono mai stati particolarmente sereni. Non gli giovarono in particolare due incidenti diplomatici in occasione di altrettanti convegni dell’Istat: la prima volta quando Brunetta, accortosi che non gli era stato riservato un posto in prima fila, fece subitaneo e incazzoso ritorno a palazzo Vidoni; la seconda quando pensò di inserire l’intervento del ministro non in chiusura dei lavori (come sempre accade) ma confondendolo nel pacchetto di mischia dei relatori. Bagatelle sul cerimoniale, che però nel Palazzo contano più di quanto non si pensi. Anche perché Giovannini, che considerava come suo unico interlocutore politico il potente ministro dell’Economia, si ricordava di Brunetta solo quando c’era da avanzare pressanti richieste di tipo organizzativo e amministrativo (a partire dall’ammontare della sua retribuzione annua lorda che, nonostante il periodo di grave crisi economica, ottenne restasse invariato rispetto ai 300mila euro che da otto anni percepiva all’Ocse). L’ultimo screzio avvenne quando Brunetta gli chiese l’utilizzo diffuso della Pec per la trasmissione dei questionari in occasione del XV censimento sulla popolazione. Era una buona idea per contenere le spese ma Giovannini aveva già deciso di avvalersi dei tradizionali rilevatori, così facendo passare da 4 a 397 il numero dei dipendenti dell’Istat a tempo determinato (con una conseguente lievitazione dei costi generali per il personale da 119 a 137,6 milioni di euro).
Salvato da una circolare
D’altronde il bilancio dell’Istituto non è mai stato un suo cruccio particolare, nonostante i pesanti disavanzi accumulati sotto la sua gestione (23 milioni 848mila euro nel 2010 e 11 milioni 408mila euro nel 2011) dovessero portare per legge alla sua rimozione. Il comma 1 bis dell’art. 15 del decreto legge n. 98/2011 prevede infatti che «nel caso in cui il bilancio di un Ente presenti una situazione di disavanzo di competenza per due esercizi consecutivi, i relativi organi, ad eccezione del collegio dei revisori o sindacale, decadono ed è nominato un commissario». A salvarlo è stata invece una provvidenziale deroga: la circolare n. 33 del 28 dicembre 2011 della Ragioneria dello Stato, che stabiliva come «la presenza di un disavanzo di competenza per due esercizi consecutivi non è sintomo di per sé di squilibrio finanziario della gestione e non comporta l’automatica applicazione della norma in esame». Sarebbe interessante comprendere come una circolare possa stoppare l’applicazione di una legge dello Stato. Ma il dato che conta è che Giovannini può sempre contare su una fortuna sfacciata: per lui ogni inciampo si trasforma in un trampolino.
Chi sarebbe ad esempio sopravvissuto alla debacle di aver presieduto una commissione di esperti che non è riuscita a fotografare la realtà italiana delle buste paga dei politici e dei vertici dell’amministrazione pubblica allo scopo di confrontarle con quelle percepite dai pari grado negli altri sei principali Stati dell’area euro? Un fallimento del genere avrebbe stroncato la carriera di chiunque.
A Giovannini è servito invece per diventare uno dei saggi del presidente Napolitano e per essere nominato ministro del Lavoro. Chapeau.