Un temporale dietro l’altro ed ecco che arriva la tempesta. Ieri, l’attesa bufera dei mercati sull’Italia ha fatto un passo avanti con la decisione dell’Agenzia di rating Moody’s di abbassare drasticamente le previsioni sulla crescita economica per quest’anno. Il Pil, cioè la ricchezza complessiva prodotta dal Paese, non sarà più dell’1,5% maggiore del 2017, ma solo dell’1,2%. Per chi non mastica di questi numeri può sembrare una minuscola limatura, ma invece si tratta di molti miliardi di euro e soprattutto di recuperarne il mancato gettito fiscale con nuove tasse e misure recessive. Ora, chi sostiene la sovranità del nostro Stato anche rispetto alla dittatura della grande finanza, continuerà a far finta di niente, contando sulle spalle larghe di un Governo che ha già fatto abbondantemente capire a Bruxelles e alle Borse di volersi avvalere di una più ampia flessibilità rispetto ai vincoli di bilancio fissati dall’Unione europea. Ma le spalle larghe e l’orgoglioso spirito di rivalsa nazionale di M5S e Lega devono fare i conti con un mostro.
Si tratta del mostro fatto da duemila miliardi di euro di debito pubblico e la necessità di rifinanziare continuamente questo gigante che ci divora. Gli ultimi dati in tal senso non sono affatto buoni. Le grandi istituzioni finanziarie che acquistano alle aste del Tesoro i nostri Bot hanno messo il freno sull’Italia, e quando da dicembre non ci sarà più la Banca centrale di Francoforte a comprarne un po’ saremo completamente in balia degli umori (e del ricatto) di chi può legittimamente decidere di non investire più su di noi. Una decisione nemmeno tanto deprecabile se pensiamo che sempre Moody’s prevede una crescita in rallentamento pure nel 2019, in linea con le stime di altri primari istituti di ricerca. Così hanno fatto per esempio il Fondo monetario internazionale e la Commissione europea – due dei pilastri di quella Troika che ha salvato la Grecia, a costo però di depredarla di tutto – ma anche le agenzie di rating Fitch e Standard & Poor’s. Queste previsioni non sono così importanti quanto l’assegnazione del rating sovrano, cioè l’indice di sicurezza sulla solvibilità di una nazione che emette titoli di debito, ma non lasciano molto sperare in un giudizio positivo a settembre, quando il ministro Giovanni Tria presenterà la nota di aggiornamento al Def (il Documento di programmazione economica), e a quel punto potrebbe arrivare il temutissimo downgrade dell’Italia, cioè un allarme di maggiore pericolo sui nostri Bot, che farà ulteriormente scappare gli investitori.
Sacrifici inutili – Siamo insomma nella classica spirale dell’economia capitalistica, dove chi sta più in difficoltà non è affossato ancora di più, nella logica cinica dei mercati. Per mettere un argine a tutto questo l’Italia era entrata con enormi sacrifici nell’euro, ha ceduto la sovranità monetaria alla Bce, si è sottoposta a regolari salassi fiscali. Scelte che sono servite a poco, tanto che adesso siamo nella situazione che vediamo. Certo – e qui è doveroso fare una precisazione – se la Banca centrale guidata da Mario Draghi non avesse piegato le resistenze di Berlino e fatto partire dal 2015 il massiccio piano di acquisto dei nostri Buoni del Tesoro, l’Italia sarebbe già saltata da un pezzo. Il guaio è che negli scorsi tre anni non abbiamo saputo approfittare di questa situazione eccezionale, e ora che il paracadute si chiude siamo persino più deboli di prima, in quanto i Paesi nostri competitor commerciali hanno sfruttato l’occasione, hanno fatto le riforme necessarie e si sono persino rafforzati rispetto a noi. Per questi motivi, e principalmente per la micidiale eredità lasciata dai governi precedenti, l’Esecutivo di Giuseppe Conte dovrà trovare un equilibrio difficile con l’Eurogruppo e la Commissione Ue. Senza piegare la testa, ma sapendo che lì ci faranno pagare tutto, dagli immigrati alla denuncia dei soprusi della Merkel e Macron.