Al centro c’è il Ministero dei beni culturali, i cui appalti dovrebbero essere gestiti in modo centralizzato e razionale. Intorno ci sono due società pubbliche che, in base all’affastellarsi nel tempo di leggi e leggine, rischiano di sovrapporre le loro competenze nella gestione delle commesse. E “sovrapporre”, per certi aspetti, è un termine eufemistico. Ma quali sono queste società pubbliche? Una è la Consip, la Centrale acquisti del Tesoro che di mestiere fa questo e niente altro, pur con qualche difficoltà ereditata soprattutto dalle gestioni passate. L’altra è Invitalia, anch’essa controllata dal Tesoro, società proteiforme che nel corso degli anni ha cambiato pelle un’infinità di volte trovandosi a fare non si sa più quanti mestieri: agenzia di attrazione degli investimenti, gestore di vecchie partecipazioni statali in dismissione, responsabile della bonifica di siti come Bagnoli, responsabile di attività di export credit in Paesi a rischio come l’Iran, centrale di committenza per gli appalti di un imprecisato numero di amministrazioni.
Ed è proprio sul terreno dei Beni culturali che, agli osservatori più attenti, non sfugge il “trend” che ha portato Invitalia a rosicchiare vistose porzioni di terreno. Il tutto, come sempre accade in Italia, complice una normativa che non brilla per chiarezza. Sta di fatto che oggi Invitalia, guidata da più di 10 anni da Domenico Arcuri, si trova a gestire moltissimi appalti per conto del Ministero relativi soprattutto a opere di restauro e messa in sicurezza. Solo per elencarne gli ultimi, si può citare la messa in sicurezza dell’acquedotto romano Anio Novus di Tivoli (570mila euro), il restauro di palazzo Doria Pamphilj di Valmontone (380mila euro), il restauro della vetrata Vivarini della Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo di Venezia (482mila euro), il restauro delle mura della rocca medievale di Asolo (340mila euro).
La Consip, anche grazie a un accordo con il ministero dei Beni culturali all’epoca guidati da Dario Franceschini (oggi al timone c’è il grillino Alberto Bonisoli), da tempo sta invece occupandosi soprattutto di servizi di ristorazione, biglietteria e vigilanza dei maggiori poli museali e archeologici. Solo per citare gli ultimi, Palazzo Massimo alle Terme (12milioni di euro), Museo archeologico di Napoli (3,3milioni), Gallerie dell’Accademia di Venezia (13,8milioni), Vittoriano (16milioni), Galleria nazionale d’arte moderna di Roma (5,3milioni), Colosseo, Foro romano e Domus Aurea (45milioni). Per carità, i settori di riferimento sono molto diversi (restauro da una parte, biglietteria e servizi dall’altra). Ma non c’è chi non veda come Invitalia, a volte anche per giustificare la sua esistenza, abbia inglobato attività che sconfinano nelle competenze di altre società pubbliche. Formalmente nulla di sbagliato, ma da un punto di vista razionale, forse, non il miglior modo di procedere a una razionale gestione degli appalti.