“Sono perfettamente d’accordo con il procuratore nazionale antimafia, Cafiero de Raho: l’autorità di pubblica sicurezza che ascolta le intercettazioni non può valutarne la rilevanza”. L’avvocato Pietro Carotti, ex deputato del Partito popolare italiano e padre dell’ultima riforma organica del codice di procedura penale approvata nel 1999, non ha dubbi. “Affidando esclusivamente a chi è all’ascolto la selezione delle intercettazioni da trascrivere, si rischia che una parte significativa delle registrazioni non venga considerata”.
Quale giudizio dà, anche alla luce della sua esperienza professionale, della nuova disciplina delle intercettazioni che, salvo modifiche, entrerà in vigore il 30 giugno?
“Le intercettazioni nacquero come spunto investigativo, ma nella progressiva deriva verso lo Stato di polizia alla quale stiamo da tempo assistendo, sono diventate prove pressoché uniche o, per lo meno, principali. Lasciarne la valutazione ad un organo-parte la considero una mostruosità. Tanto più è rilevante l’intercettazione ai fini della prova quanto più deve essere valutata dalle parti”.
E come si potrebbe correggere questo limite, a suo avviso, insito nel decreto?
“Credo sia necessaria una verifica formale delle intercettazioni nel corso della quale si assicuri il contraddittorio tra le parti strettamente interessate”.
Pensa ad una sorta di udienza filtro?
“Penso, più che altro, ad un’udienza in camera di consiglio, riservata e aperta alla partecipazione di un numero il più ristretto possibile di soggetti che possa limitare le fughe di notizie preservando da un lato la tutela del contraddittorio tra le parti e dall’altro della riservatezza dei terzi non indagati finiti nelle intercettazioni”.
Come si spiega che – sintetizzo la sua affermazione – l’intercettazione da mezzo di ricerca della prova è diventata sempre più prova vera e propria?
“Con un progressivo imbarbarimento della giurisprudenza. La lotta alla criminalità non si fa con le norme processuali ma con le investigazioni di polizia. Vedo purtroppo una deriva profana e di incompetenza”.
Tra le innovazioni introdotte dalla sua riforma del 1999, c’è anche la disciplina del rito abbreviato che dà diritto ad uno sconto di pena per l’imputato in caso di condanna. Molti ritengono che sia un regalo ai delinquenti…
“Il percorso che si tenta di intraprendere su alcune tipologie di reati è pura demagogia mal informata. Ci si scandalizza, per esempio, perché per effetto dello sconto di pena previsto per il ricorso al ritro abbreviato il colpevole di un omicidio viene condannato a trent’anni di reclusione anziché all’ergastolo. Ma nessuno di preoccupa di spiegare che, spesso, il condannato all’ergastolo esce dal carcere prima del condannato a trent’anni. Il canale di accesso ai benefici per entrambi è, infatti, pressoché identico”.
Non manca neppure chi pensa ad interventi sul diritto penale – invocando inasprimenti delle pene – per combattere alcune tipologie di reati, ad esempio la corruzione. Come giudica questo approccio?
“Tutti coloro che li propongono hanno evidentemente scarsa dimestichezza con le gride manzionane: nella storia, mai un inasprimento delle pene ha portato dei benefici nella lotta ai reati. è l’accertamento del reato e non la quantità della pena che fa la differenza”.