Macron ha chiesto scusa, oggi Conte va a riverirlo all’Eliseo e la vagonata di fango gettata sull’Italia è perdonata. Possiamo essere tutti contenti? Ma assolutamente no, e agli ingenui che invece festeggiano proviamo a spiegare perché. Il duplice insulto rivolto al nostro governo per un comportamento definito “cinico” e addirittura “vomitevole” non è arrivato casualmente. Al massimo livello degli Stati e delle diplomazie le parole sono pesanti come pietre, e difficilmente si tratta di voci dal sen fuggite. Il rifiuto di fare attraccare nei nostri porti la nave Aquarius zeppa di migranti respinti illegalmente da Malta non era un episodio più grave di altre vicende precedenti. Dallo sconfinamento di gendarmi armati a Bordonecchia, arrivati a minacciare gli immigrati in territorio italiano, fino alla tensione lungo la frontiera di Ventimiglia, i rapporti tra Roma e Parigi sono delicatissimi ormai da tempo. Dunque è chiaro che si è voluta alzare consapevolmente l’asticella. La Notizia segnalò subito questa strategia, e già tre giorni fa su queste pagine provammo a collegare questo eccesso di nervosismo con una serie di scadenze di carattere economico. Ieri la Banca centrale governata ancora per pochi mesi da Mario Draghi ha segnato lo spartiacque tra la lunga stagione dell’accomodamento monetario in Europa con cui si è affrontata dal 2015 la crisi di crescita e finanziaria determinata dalla sfiducia sul debito degli Stati sovrani.
L’acquisto a rotta di collo di buoni del Tesoro dei diversi Paesi Ue ha salvato l’euro e la stessa tenuta dell’Europa che conosciamo. L’istituto di Francoforte ha comprato carta per centinaia di miliardi e stampato una quantità spaventosa di moneta. Una pacchia per i mercati finanziari e soprattutto per i Paesi più indebitati, come il nostro che galleggia su un debito pubblico di 2.300 miliardi. Questo ombrello, che l’Italia avrebbe dovuto utilizzare per fare le riforme e dare più forza alla messa in sicurezza dei conti dello Stato e alla crescita dell’economia, non si è usato a dovere. Il Pil (cioè la ricchezza prodotta) è salito l’anno scorso fino a un modesto 1,5%, e questo non per merito nostro ma d’inerzia, per le condizioni esterne create appunto dalla Bce. Ad aiutarci è stata anche la flessibilità mai vista in precedenza accordata da Bruxelles. Tutte le nazioni che partecipano alla Comunità europea hanno dei vincoli strettissimi sul rientro del debito e il contenimento del deficit accumulato anno dopo anno. In passato, ai tempi di Berlusconi a Palazzo Chigi, su questi vincoli Roma si è sfasciata la testa, incontrando il netto rifiuto a qualunque deroga, persino quando si spiegava che una maggiore spesa pubblica sarebbe servita a sostenere la produzione e dunque la capacità di restituire un giorno il nostro debito pubblico. Dal 2015 in poi, parallelamente a una stagione di chiusure su temi come la gestione solidale degli immigrati – che ha contribuito ad alimentare i nazionalismi – la Commissione Ue ha permesso agli Stati di presentare leggi di bilancio con nuovi e consistenti debiti. L’estate delle cicale non lasciava posto all’inverno delle formiche.
Strada obbligata – Per quanto bizzarro, il clima però presto o tardi deve cambiare e ora abbiamo davanti un’Europa che deve tornare a stringere i cordoni della spesa. Uno scenario che le forze politiche uscite vincitrici dalle elezioni del 4 marzo e che oggi sostengono il Governo Conte conoscono perfettamente. Tanto che nel contratto è scritto grande come una casa che l’Italia non solo non si berrà le nuove imposizioni di Bruxelles, ma al contrario andrà a rinegoziare i trattati e persino quel debito che con i soli interessi ci strozza. Una strategia senza via di uscita, a meno di non accettare nuove misure recessive o misure shock tipo l’imposizione di una patrimoniale, con il prelievo forzoso di parte del risparmio privato per ripagare il debito pubblico. Tradotto meglio: una ghigliottina nel primo caso e un furto legalizzato nel secondo. Ora, poiché M5S e Lega non hanno intenzione di prendere né la prima né la seconda strada, non resta che andare a battere i pugni sui tavoli in Europa, dove troveremo di fronte quell’asse franco-tedesco che non ha niente da guadagnare nel favorire il nostro Paese e quei populisti di Dalvini e Di Maio.