di Stefano Sansonetti
Il provvedimento è arrivato in questi giorni alla Commissione speciale per l’esame degli atti del Governo, da intendersi ovviamente come quello uscente di Paolo Gentiloni. Di sicuro c’è stata una gran fretta di incardinarlo, se le carte pervenute alla Camera lo scorso 12 aprile dicono che c’era la necessità di approvarlo “nei tempi più brevi possibili”. Parliamo di uno schema di decreto del presidente della Repubblica con cui, lontano dai riflettori, si intende modificare l’organizzazione degli uffici centrali di livello dirigenziale del Ministero dell’interno. In particolare si punta a modificare in profondità gli assetti del Dipartimento della pubblica sicurezza, quello da cui dipende la Polizia di Stato. Il provvedimento, quindi, sembra avere la spinta dal ministro uscente, Marco Minniti, e del capo della Polizia, Franco Gabrielli. Gli articoli sono pochi, due, ma incidono parecchio.
La mossa – L’effetto più dirompente è la cancellazione dell’attuale Direzione centrale degli affari generali della Polizia di Stato, quella che sin qui si è occupata della delicatissima e strategica pianificazione delle dotazioni di risorse umane e strumentali degli uffici. Un universo di attività in cui, neanche a dirlo, è compresa la predisposizione di voluminosi bandi di gara necessari al funzionamento delle forze dell’ordine. Il personale di questa Direzione, ossia 243 unità, verrà inglobato in quella che oggi si chiama Direzione centrale per le risorse umane (competente sul personale), alla quale però lo schema di decreto cambia nome in “Direzione centrale per gli affari generali e le politiche del personale della Polizia di Stato”. E qui ci si deve fermare un attimo. Quest’ultima, infatti, sarà una sorta di maxi Direzione destinata ad assumere le vere leve di comando di tutta la macchina amministrativa della Polizia. Non per niente la Relazione illustrativa al provvedimento, trasmessa anch’essa alla Commissione speciale, dice che la nuova struttura è “destinata a diventare la centrale unica degli acquisti del Dipartimento di pubblica sicurezza”. In soldoni vuol dire un potere enorme accentrato, visto che finora gli appalti, rammentano i documenti, erano gestiti da 7 uffici diversi. L’analisi tecnico-normativa allegata al decreto, nel chiarire che lo scopo della nuova Direzione è “una più efficace programmazione e pianificazione dei processi di spesa curati dal Dipartimento”, dice che i flussi di denaro in questione nel solo 2017 sono stati di 7,4 miliardi di euro. Insomma, il decreto messo in extremis sui binari da Minniti, verosimilmente in accordo con Gabrielli, rappresenta un cambiamento a suo modo enorme. E il livello di attenzione diventa ancor più alto se si considera, come spiegano le carte, che in realtà entro il 31 dicembre del 2018 è atteso un più vasto regolamento di ristrutturazione degli uffici dirigenziali del Ministero dell’interno. Ma lo stesso Viminale, realizzando che tra un’attuazione e l’altra il disegno complessivo rischia di andare per le lunghe, ha vestito di urgenza quella parte del progetto che riguarda la Polizia. Il tutto mentre il Paese è ancora alle prese con i tentativi di formare un Governo.
I profili – Ma quanto incidono eventuali partite di potere su questa sorta di “blitz”? Oggi a capo della Direzione affari generali, come detto destinata allo smantellamento, siede il prefetto Filippo Dispenza, nominato nell’aprile del 2016 dall’allora Governo di Matteo Renzi. A capo della Direzione risorse umane, che invece ingloberà la prima e cambierà nome, fino a pochissimo tempo fa c’era il prefetto Mario Papa, che però a febbraio 2018 è stato nominato Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse. Al suo posto, in quella che è destinata a diventare la Direzione strategica della Polizia di Stato, è stato chiamato Giuseppe Scandone, già direttore della Scuola di Polizia di Roma. Si tratta di un nome di peso. Già capo di gabinetto del Sismi, il Servizio segreto estero (oggi Aise) all’epoca guidato da Nicolò Pollari, Scandone nel 2008 venne sentito come testimone nel caso del rapimento dell’imam egiziano Abu Omar, opponendo quel segreto di stato poi confermato dal Governo.