di Valeria Di Corrado
Mettere le briglie all’inflazione è possibile. La chiave di volta è il “peso” che viene dato ai singoli beni di consumo nel paniere compilato ogni anno dall’Istat. Un metro non oggettivo, che, se non tiene conto fedelmente dei cambiamenti nelle abitudini di consumo della popolazione, può falsare il calcolo dell’inflazione, al ribasso. Basta sopravvalutare il peso di prodotti che, causa crisi, si tende ad acquistare meno. E contemporaneamente sottostimare quello di prodotti che aumentano di prezzo e dei quali non si può fare a meno. La sensazione è che “addomesticando” queste cifre si faccia un favore al Governo di turno. Togliendogli l’onere di rimodulare stipendi e pensioni.
Come è possibile, ad esempio, che in un momento di recessione come quello attuale gli italiani spendano per ristoranti, bar e alberghi esattamente quello che spendono per affitto, riscaldamento, manutenzione e utenze domestiche? Che per mobili e articoli per la casa vadano in fumo le stesse somme destinate a farmaci, terapie mediche ed esami specialistici? Oppure che il peso dato all’assicurazione su auto e moto equivalga a quello per il parrucchiere? L’associazione dei consumatori Codacons è convinta che l’Istituto nazionale di statistica dal 2002 (anno di introduzione dell’euro) utilizzi nel calcolo dell’inflazione dei pesi sballati, rispetto alla spesa reale di cittadini. E la prova si fonda su due diversi documenti, entrambi pubblicati dall’Istat: l’ultima indagine sui consumi delle famiglie e il paniere del 2013. Nel primo report, ad esempio, emerge che abbigliamento e calzature attualmente si assestano al 5,7%; nel secondo report all’8,3%. Stesso discorso per i servizi ricettivi e di ristorazione: nell’indagine il comparto copre il 5,6% dei consumi, ma nel paniere il peso che gli viene attribuito è 11,2%. La crisi economica ha fatto precipitare le spese per beni superflui (lo confermano i dati, tutti negativi, delle associazioni dei commercianti), eppure nel calcolo dell’inflazione l’Istat non tiene conto di questo abbassamento dei prezzi. Quando si tratta però di quantificare il costo di abitazione, acqua, elettricità e combustibili, il peso attribuito nel paniere (10,8%) è addirittura un terzo di quello reale (34%).
Tutto questo si traduce in un divario complessivo di non poco conto nei bilanci familiari. Prendendo per buoni i pesi del paniere, infatti, l’aumento della spesa annua è di 640 euro, a fronte degli 895 euro che risultano dall’indagine sui consumi reali. E la “mazzata” pesa di più sui nuclei familiari meno abbienti. Secondo le stime elaborate dal Codacons l’inflazione per le fasce più deboli è doppia o addirittura tripla rispetto a quella ufficiale (cresciuta dal 2005 al 2012 “solo” del 20%). Su questo influisce anche il fatto che nel calcolare i pesi dell’anno in corso vengono analizzati i consumi relativi a due anni prima. E ovviamente, in tempi di recessione, un tale sfasamento temporale falsa tutto il campione.
Insomma, all’Istat i conti non tornano. E non solo per il calcolo dell’inflazione (strategico per stabilire il giusto rapporto tra stipendi e potere di acquisto). L’Istituto infatti ha chiuso, per due anni consecutivi, la propria gestione finanziaria con il segno meno. Nel 2010 il disavanzo accumulato dall’ente ha toccato i 23 milioni e 848 mila euro. L’anno dopo le cose sono andate, per modo di dire, meglio. A fronte di 445 milioni di entrate, ne sono stati spesi 456. Per un totale di 11 milioni e mezzo di perdita. Nonostante la Corte dei Conti abbia certificato a febbraio il “rosso”, un commissario straordinario non ha ancora bussato alla porta. Nel frattempo, però, il neopremier Enrico Letta ha deciso di “premiare” Enrico Giovannini (dal 2009 presidente dell’Istituto) nominandolo ministro del Lavoro, dopo che Giorgio Napolitano l’aveva scelto per formare la squadra dei dieci saggi. Eppure l’aver gettato la spugna nell’incarico di comparare i compensi degli europarlamentari nostrani con quelli stranieri (aprile 2012) non era certo stato un punto di merito per il curriculum di Giovannini.