Alla fine Matteo Renzi ha scelto di candidarsi al Senato che voleva abolire con la riforma costituzionale bocciata dalla maggioranza degli italiani. “Se il Pd è il primo gruppo parlamentare abbiamo vinto le elezioni, altrimenti non abbiamo vinto. Questa è la differenza tra vittoria e sconfitta”, continuava a ripetere l’ancora per poco segretario del Partito democratico a ridosso della débâcle del 4 marzo. E adesso che con i suoi fedelissimi si ritrova arroccato a Palazzo Madama, come forza di minoranza e sempre più prossimo alla minoranza anche in seno al suo stesso gruppo parlamentare, l’ormai ex segretario del Pd si ritrova a fare i conti con una sorta di nemesi storica.
Nemesi storica – Intrappolato tra i velluti rossi di quella stessa Aula nella quale, il 24 febbraio 2014, si presentò dinanzi ai futuri colleghi per chiedere non solo la fiducia al suo Governo ma anche di pigiare il pulsante dell’autodistruzione. “Eppure, oggi chiedere la fiducia significa proporre una visione audace, unitaria e per qualche aspetto anche – spero – innovativa, che parte dal linguaggio della franchezza con la quale comunico fin dall’inizio che vorrei essere l’ultimo presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’Aula…”, disse con piglio deciso e un pizzico di incosciente arroganza. Quattro anni dopo eccolo di nuovo in un Senato sopravvissuto alla mannaia della riforma mancata. Ridimensionato a “senatore semplice”, come lo stesso Renzi si è definito, dal voto degli elettori. E, per di più, con un margine di manovra molto più limitato di quanto non avrebbe goduto se, al contrario, si fosse candidato a Montecitorio. Perché il lascito del nuovo regolamento del Senato, voluto fortemente dal presidente uscente di Palazzo Madama, Piero Grasso, gentilmente accompagnato alla porta del Pd insieme ad un pezzo della storica classe dirigente del Partito democratico, toglie di fatto a Renzi l’opzione della scissione per dare vita ad un gruppo parlamentare autonomo.
Limiti ferrei – La riforma del regolamento del Senato, infatti, introduce una serie di norme “antiframmentazione” e “antitrasformismo”, con l’obiettivo di arginare la mobilità parlamentare e la costituzione di formazioni prive di un’effettiva presenza politica sul territorio. In particolare, a partire dall’attuale legislatura, ciascun gruppo deve “rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno conseguendo l’elezione di senatori”. La soglia minima per costituire un gruppo resta quella di 10 parlamentari. Ai senatori a vita è data la possibilità di non appartenere ad alcun Gruppo. La soglia scende a 5 componenti per i senatori appartenenti alle minoranze linguistiche. E, a differenza delle passate legislature, non sono più autorizzati gruppi “in deroga” né possono formarsi nuovi gruppi, se non per fusione di gruppi già costituiti. Ma non è tutto. In caso di cambio di gruppo parlamentare, i senatori che rivestano le cariche di vice presidente e segretario del Consiglio di presidenza e i membri dell’Ufficio di Presidenza delle Commissioni decadono automaticamente dalla carica. Insomma, se Renzi fosse tentato di dare vita ad un gruppo autonomo rispetto a quello del Pd avrebbe, a norma di regolamento, le mani legate.