L’obiettivo era di quelli importanti: “programma straordinario di ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico”, nonché di “realizzazione delle residenze per anziani e soggetti non autosufficienti”. È addirittura il 1988 quando prende piede la prima fase del Piano straordinario che durerà fino al 1996, anno in cui seguirà una seconda e più sostanziosa fase, fino al 2016. Un programma importante, dunque, per garantire alti livelli di assistenza nelle strutture pubbliche. Non a caso viene stanziata, tra prima e seconda fase, la bellezza di 24 miliardi di euro, cui si aggiungono ulteriori 100 milioni nel 2017 specifici per progetti nelle Regioni del Sud. Fin qui tutto bene. Peccato, verrebbe da dire, che siamo in Italia. E così anche i progetti lodevoli finiscono con lo scontrarsi drammaticamente con lentezze burocratiche e piaga della corruzione, tanto che “numerose e assai costose risultano ancora quelle opere che è necessario eseguire per rispondere concretamente alle esigenze di una sanità di qualità”, come dice la Corte dei conti in una corposa relazione pubblicata in questi giorni che fa il punto proprio sull’utilizzo dei 24 miliardi per il patrimonio sanitario.
Codice rosso – Il quadro tratteggiato è impietoso. Prendiamo la sicurezza infrastrutturale dei presidi ospedalieri: “assolutamente insufficiente” lo stanziamento di 90 milioni per la realizzazione delle misure anti-incendio (per cui occorrerebbero 3 miliardi); peggio ancora va se ci spostiamo sul campo dell’adeguamento antisismico, poiché a riguardo “nessuna dotazione risulta essere stata destinata”. Non un piccolo particolare se si considera che il ministero della Salute, sottolineano ancora i magistrati contabili, ha stimato in non meno di 12 miliardi lo stanziamento necessario per la messa in sicurezza delle strutture ospedaliere. Ma questi non sono che esempi. Scorrendo il lungo dossier, infatti, emergono casi emblematici in giro per l’Italia, accomunati da uguali criticità. A cominciare dal fatto che, scrive la Corte, lo stesso ministero della Salute, nella sua attività di vigilanza, “non è al corrente del modo in cui, a livello territoriale regionale, vengono investite le risorse”. Occhi chiusi. Col risultato che ognuno fa come vuole. Se infatti alcune Regioni si sono dimostrate particolarmente attive nel sottoscrivere accordi di programma (di modo da chiedere finanziamenti e poi, dunque, usufruirne), altre sono state a dir poco dormienti. “Singolare”, scrivono i magistrati, che nel periodo 1996-2016 la Regione Campania e la Regione Lazio abbiano sottoscritto solo due accordi di programma. Risultato? I due enti hanno lasciato “inutilizzato circa il 68% delle risorse disponibili”, pari per la Campania a circa 1,1 miliardi e per il Lazio a 563 milioni. Non che negli altri casi vada meglio: dal 2012 al 2016 risultano essere stati sottoscritti 15 accordi di programma per un totale di 221 interventi, di cui solo il 7% è stato completamente realizzato (15 interventi), mentre 145 progetti ancora non sono nemmeno cominciati.
L’esempio calabrese – Ma la ciliegina sulla torta arriva dalla Calabria: qui dovrebbero nascere tre nuovi ospedali (a Vibo, nella Sibaritide e nella Piana di Gioia Tauro), frutto di accordi tra pubblico e privato. Peccato, però, che “i costi sostenuti appaiono particolarmente ingenti nonostante le opere da realizzare non risultino ancora avviate”, tanto che è lecito porsi “seri interrogativi sulle concrete capacità gestionali […] degli organi regionali”. Qualche esempio? Andiamo a Vibo Valentia. Senza che si sia mosso un dito concretamente, dal 2008 sono stati spesi 203mila euro per pagare il soggetto attuatore, 27.600 euro di “consulenza archeologica” e altri 7mila e rotti di pubblicità. Totale: 238mila euro senza che i lavori nemmeno siano cominciati. Ancora peggio va per l’ospedale della Sibaritide: qui la spesa sostenuta arriva a 2,3 milioni di euro; mentre per quello della Piana di Gioia Tauro sono stati spesi 387mila euro. Pubblicità a tutto spiano. Senza che ci sia nulla da pubblicizzare.
Chi ci guadagna – Un quadro fosco, dunque. Che, scrive la Corte, non può che avere “ripercussioni di particolare impatto nel settore sanitario”: da una parte la “scarsa efficacia delle prestazioni direttamente rese dal Servizio Sanitario Nazionale”, dall’altra l’inevitabile “crescente affidamento a strutture private”. Ecco perché urge la necessità di una “riflessione circa l’esigenza di impostare […] programmi di investimento che consentano di riportare sotto controllo la spesa corrente per il finanziamento degli investimenti privati, ‘sostitutivi’ delle carenze dell’intervento pubblico”. Che, ad oggi, latita. Sia in infrastrutture che in macchinari.
Tw: @CarmineGazzanni