Giudici che smentiscono clamorosamente altri giudici, avvocati che mortificano intere Procure, processi che diventano show più simili al Grande fratello che a Un giorno in pretura. L’autorevolezza e la stessa credibilità della Giustizia sono messe ormai troppo frequentemente in bilico per non suscitare preoccupazione, se non addirittura sconcerto. Senza andare indietro a battaglie che hanno lasciato cicatrici profonde, come quella tra Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo a Milano, due episodi nelle ultime ore macchiano ancora la magistratura. Il primo arriva dalla Cassazione, dove la suprema corte ha definito illegittimi la perquisizione e il sequestro di telefonino, materiale informatico e documenti del giornalista del Fatto Quotidiano, Marco Lillo.
Tutti contro tutti – Il provvedimento era stato disposto il 5 luglio scorso dalla Procura di Napoli che indaga sulla fuga di notizie nell’inchiesta Consip, condotta dai pm Henry John Woodcock e Celeste Carrano. Gli stessi magistrati poi finiti sotto la lente pure della Procura di Roma e già prosciolti da una tale accusa. Sospetti e accuse tra colleghi, che secondo la Cassazione hanno esagerato. Facendo riferimento alla libertà di stampa e alle garanzie riconosciute dalla Corte dei diritti dell’uomo, i giudici di Piazza Cavour scrivono che la perquisizione e il sequestro ai danni di Lillo sono state misure sproporzionate, con particolare riferimento all’assenza di un legame probatorio tra l’oggetto dell’indagine e i documenti sequestrati, tra cui il contratto per la stampa del libro contenente le rivelazioni coperte da segreto giudiziario. Affinché il sequestro sia valido, ha spiegato la Cassazione annullando senza rinvio l’ordinanza di sequestro, “non è sufficiente affermare che si tratti di atti relativi al libro che ha divulgato al pubblico la notizia segreta presumibilmente rivelata da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio”. ”Occorre verificare – prosegue la sentenza del consigliere Antonio Corbo della sesta sezione penale – che detti documenti abbiano uno specifico legame con la condotta di rivelazione di segreto di ufficio, in particolare perché contenenti elementi utili per individuare la provenienza della notizia ricevuta dal giornalista”.
Show in Aula – Se la Cassazione bacchetta, gli avvocati randellano, e ieri all’apertura del processo d’appello sulla vicenda di Mafia Capitale, il legale di uno dei principali imputati, l’ex Nar Massimo Carminati, ha sparato a zero su tutti: dal processo definito “processetto” al giornalista dell’Espresso Lirio Abate, chiamato in aula “Delirio Abate”. L’avvocato Giosuè Naso contesta radicalmente il teorema della Procura, che definisce di tipo mafioso l’associazione a delinquere che si spartiva appalti e affari a Roma, anche attraverso le intimidazioni che potevano arrivare da un personaggio come Carminati, in passato con legami persino con la Banda della Magliana. La sentenza di primo grado ha respinto questo impianto e adesso l’Appello dovrà giudicare il ricorso presentato dalla pubblica accusa, nonostante le pene inflitte a 43 imputati (20 anni a Carminati e 19 a Salvatore Buzzi, all’epoca a capo della Cooperativa 29 Giugno, molto attiva negli appalti pubblici per l’accoglienza degli immigrati). L’apertura del nuovo processo con gli attacchi quanto meno irrituali di ieri è stata stigmatizzata fuori dall’aula dagli avvocati di parte civile. Per la Giustizia, che ha anche nella ritualità un suo elemento fondante, non sono certo i tempi migliori.